Editoriale

Il grillo e lo scarafone: “Come una nemesi, Beppe Grillo si dimette dal grillismo in tv…”

di Tommaso Cerno -


Come una nemesi, Beppe Grillo si dimette dal grillismo in tv. E trasforma in show il processo al suo scarafone, Ciro, accusato di stupro. Perché lì, in diretta sul piccolo schermo, proprio quello che aveva contestato per conquistare la piazza grande del 2018, cestina per sempre l’uno vale uno e trasforma il processo privato in caso politico. Un’accusa da uomo forte a donna forte, che mette in secondo piano sia la donna che accusa Ciro, sia Ciro e i suoi amici. E che porta per l’ennesima volta sul palcoscenico della rissa quotidiana italiana la verità di una élite che usa la gente comune per i propri comodi. E che quando i comodi diventano altri, la lascia a se stessa.

La banale verità è che Beppe Grillo non è mai valso uno, né in Italia né tanto meno nel suo Movimento. Né vale uno suo figlio. Né vale uno quel processo che ha al centro l’accusa più difficile da digerire per un genitore e che da domenica è un processo estraneo al normale iter giudiziario. Non solo perché è mediatico, ma perché dopo le accuse all’avvocato Bongiorno è totalmente politico. E dove né la presunta vittima, né i presunti colpevoli contano in verità nulla.

Sostituiti da ingombranti genitori, ingombranti legali, ingombranti dibattiti che sono lo specchio esatto dell’Italia che siamo e dell’ipocrisia che stava alla base della nascita dei grillini, un pezzo della casta mediatica che ha fatto dell’anticasta il suo mantra per diventare esattamente come chi contestava. E che oggi vede nel suo fondatore l’esempio di come, quando fai parte di una élite, non riesci a nasconderlo. Non riesce a celarlo. E finisci per scoprire il gioco proprio quando il leader che ha ereditato il consenso parlamentare del fondatore cerca in tutti i modi di distinguersi, di sembrare popolare, di stare con gli ultimi.

E’ il segno dei tempi. E’ l’inizio della riscossa del Palazzo sulla strada. Una riscossa che un pezzo d’Italia attende dal 1994, da quando Tangentopoli spazzò via un sistema di potere paludato, dando l’impressione che si stavano liberando delle forze nuove, delle personalità estranee al compromesso, delle voci diverse. In verità ci si affidava semplicemente al “diverso” per perpetuare i comportamenti “uguali” che lo scossone giudiziario aveva messo in discussione. Il problema è che anche il grillismo è stato la stessa falsa rivoluzione.

E oggi, per assurdo, a testimoniarlo c’è proprio il suo fondatore, che si mostra di nuovo dopo quindici anni per ciò che è: un privilegiato che attacca in televisione la donna che accusa il figlio di averla stuprata assieme a un branco di amici. E lo fa grazie al suo ruolo pubblico, alla sua storia, alla sua fama personale e politica, proprio come fece quando illuse milioni di italiani che attorno a lui stesse nascendo un partito politico diverso dagli altri, capace di affidare davvero all’uomo qualunque ciò che qualunque non è, la guida del Paese.

Dobbiamo ringraziare Grillo. Ringraziarlo della sincerità. Una sincerità che fa luce su tanti dubbi. E che rende alla fine Gigino Di Maio e il suo fantasmagorico incarico nel Golfo Persico la cosa più normale che ci sia. Perché da domenica sera siamo tornati a vivere nell’Italia che conoscevamo. E l’abbiamo fatto grazie a Fabio Fazio, che ce la racconta da molti anni. Senza domande. E grazie all’ultimo comizio politico di un papà che ha fatto come tutti. Ha usato il suo ruolo per aiutare il suo scarafone. Che è bello a mamma sua.


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