Economia

Il Manifesto degli economisti “Così la guerra può davvero finire”

di Cristiana Flaminio -

GUERRA IN UCRAINA PALAZZI DISTRUTTI BRUCIATI ABITAZIONI CIVILI


Quando il gioco si fa duro, scendono in campo gli economisti. Un plotone di studiosi, ricercatori, esperti e accademici da tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, ha redatto un decalogo per la pace affinché tacciano le armi che è stato pubblicato nella giornata di ieri sulle colonne del Financial Times. In traduzione italiana, è già apparso sul blog Econopoly de Il Sole 24 Ore. Per arrivare alla pace, prima di tutto, occorre capire le ragioni del conflitto. Solo dopo aver fatto la giusta diagnosi si può promuovere una cura, trovare una soluzione a un problema che, insanguinando l’Ucraina, sta mettendo in ginocchio l’Europa e il pianeta. La guerra, dicono gli accademici, non sta in uno scontro di civiltà. Ma in molto più prosaiche ragioni economiche da rintracciare in uno scontro interno al capitalismo mondiale, tra debitori (occidentali) e creditori (Russia e Cina).

L’analisi

Il documento è un’analisi spietata del problema. Del resto, non è che ci si può permettere il lusso di essere indulgenti dal momento che, come ci insegna la sapienza romana, il medico pietoso rischia di fare più male al paziente che già soffre. La guerra dura ormai da un anno e, notano gli economisti firmatari del “decalogo”, nulla lascia presupporre un ridimensionamento del conflitto. Anzi, i venti di guerra spirano più forti che mai. I valori e le differenti visioni del mondo, politiche e culturali, c’entrano davvero poco. La realtà, come sempre accade, è da ricercare nelle dinamiche economiche che, in questi anni, stanno attraversando il pianeta. Una su tutte: l’Occidente, Usa e Gran Bretagna in testa, avrebbero accumulato debiti verso l’estero sempre più grandi e insostenibili. Viceversa, la Cina e, in un certo qual modo anche la Russia, risultano in credito verso i Paesi stranieri. Per gli economisti “Un’implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l’Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: una centralizzazione del capitale in mani orientali”.

Il friend shoring

Questa situazione ha comportato una reazione protezionistica da parte degli Usa e dell’Occidente. Che, in poco tempo, hanno iniziato a tirare i remi in barca, abbandonando la retorica del villaggio globale “deregolarizzato” e adottando un approccio nuovo: quello del friend-shoring. Se negli ultimi decenni le aziende occidentali hanno investito ovunque, nel mondo, trovassero più convenienza in termini di costo del lavoro e materie prime, adesso la tendenza è quella di “rientrare”. In patria (e gli Stati Uniti, con l’Inflaction Reduction Act, hanno già iniziato a richiamare sullo scenario domestico le proprie multinazionali) o quantomeno, di investire in Paesi “amici”, alleati fidatissimi sullo scacchiere internazionale. Ogni azione, però, comporta una reazione. In fisica e in economia. “Se la storia insegna qualcosa, queste forme scoordinate di protezionismo esacerbano le tensioni internazionali e creano condizioni favorevoli a nuovi scontri militari”. Pertanto, scrivono gli economisti, “il conflitto in Ucraina e le crescenti tensioni in Estremo e Medio Oriente possono essere pienamente compresi solo alla luce di queste gravi contraddizioni economiche”. Non è una guerra di civiltà ma uno scontro tra diverse posizioni nell’ambito delle dinamiche internazionali degli investimenti, dell’economia, della finanza e del grande capitalismo.

SULL’ORLO DEL BARATRO

Il mondo si trova, dunque, al cospetto di una situazione esplosiva. Che va disinnescata, a ogni costo. Nessuno, in fondo, si può permettere che insorga una guerra mondiale. Sarebbe la terza e avrebbe conseguenze devastanti per tutti. Per trovare una pace, che sia duratura sul serio, occorre lavorare sodo ed essere disposti a sacrificare qualcosa. E, per farlo, bisogna ripartire dalle basi. O, meglio ancora, dalla lezione di John Maynard Keynes e della “sua” International clearing union. Riannodare le relazioni facendo, ciascuno, un (grande) passo indietro: “Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero abbandonare il protezionismo unilaterale del friend shoring, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero abbandonare la loro adesione al libero scambio”. Tertium non datur. Gli economisti sanno di chiedere molto. E la conclusione del manifesto apparso sul Financial Times è eloquente: “Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno”.


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