Esteri

IL PATTO ITALIA TURCHIA

di Maurizio Zoppi -

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Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, nonché vicepresidente del Consiglio, vola in Turchia per discutere con le istituzioni di Ankara, sul dossier migranti. Una tematica che scotta da tanti anni in Italia, che il governo Meloni ha promesso di risolvere. O almeno spera. Mai, così tanti ingressi irregolari dal 2016: nel 2022 nella rotta del Mediterraneo Centrale c’è stato un aumento del 51% rispetto all’anno precedente. E un accordo Ue per la gestione è ancora lontano. Proprio ieri mattina il politico di Forza Italia, ha incontrato il collega turco Mevlut Cavusoglu. L’incontro si inserisce nell’alveo di un complessivo rilancio della cooperazione bilaterale tra i due Paesi, peraltro già molto intensa su diversi fronti. A seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, sono stati continui, anche con il vecchio premier Mario Draghi, i contatti tra i governi dei due Paesi. L’Italia è da molti anni impegnata nel promuovere all’interno dell’Ue un approccio costruttivo verso la Turchia, considerata un partner strategico per l’Europa. Il vertice di Ankara rappresenta quindi un’occasione importante per rafforzare il dialogo bilaterale in un’ottica non solo nazionale ma anche europea, soprattutto in tema di migranti. La Turchia tenta in tutti i modi di recuperare lo status di grande potenza, allargando al Mediterraneo i propri confini e, così facendo, scontrandosi con il raggio d’azione di Roma e instaurando un vicinato più o meno asimmetrico. Immersa negli instabili scenari regionali di un vicinato turbolento, la Turchia si distingue per una proattività che segna le sue relazioni economiche e diplomatiche. Attivismo, frutto di una posizione geo strategica che la rende una sorta di ponte naturale tra Europa ed Asia ed una zona di transito cruciale per gli approvvigionamenti energetici e gli scambi verso i mercati limitrofi: dall’area del Mar Nero a quella del Mediterraneo, dal Medio Oriente alle Repubbliche dell’Asia Centrale. Da contrappeso alla dimensione economica si propone il quadro geopolitico, dotato di un peso specifico maggiore, che segnala la prevalenza di dinamiche competitive piuttosto che cooperative. Ne è un caso paradigmatico la Libia, uno degli snodi cruciali dei flussi migratori diretti verso l’Italia via mare e via terra, in cui dal 2019 Ankara ha assunto il ruolo di interlocutrice privilegiata al fianco dell’ex ministro libico al-Sarraj, a perimetro della storica sfera d’influenza italiana. “L’Italia lavora affinchè il Mediterraneo non diventi un cimitero di migranti”. Ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in conferenza stampa ad Ankara. “Bisogna garantire la sicurezza, per noi è una priorità ma non possiamo farlo da soli. L’immigrazione come il terrorismo è un problema globale. La stabilità della Libia è una priorità per l’Italia e per la Turchia”. Ha affermato Tajani, ai giornalisti. “Italia e Turchia hanno una visione comune sulla Libia. Vogliamo che si arrivi alla stabilità perché si deve arrivare ad elezioni che consentano al Paese di governarsi”. Nel frattempo però a Tripoli è la Turchia a fare da asso pigliatutto, considerando ormai quella Terra di propria influenza, attraverso numerosi accordi bilaterali soprattutto rispetto alla tematica energetica. Ma anche perché: se l’Italia continua a cedere alla Libia altre 14 navi veloci per intercettare i migranti nel Mediterraneo, sono proprio i turchi, di fatto, a controllare buona parte della cosiddetta guardia costiera libica. Circa un anno fa, il “fantomatico” governo libico, del premier Dbeibah, ha nominato a capo del Dipartimento contro l’immigrazione illegale (Dcim) il capomilizia filoturco Mohammed al-Khoja. Proprio al-Khoja, pare sia stato accusato da varie organizzazioni internazionali e dalle agenzie Onu di essere legato al business del traffico di persone. Ma sembrerebbe che il capo del Dcim è in buona compagnia. Dbeibah ha nominato come sottosegretario al ministero dell’Interno libico, Emad Trabelsi, a quanto pare, anche lui è abbastanza esperto di traffico dei migranti. Nel frattempo, è passato oltre un anno dal 24 dicembre 2021. Quel giorno in Libia si sarebbe dovuto votare per eleggere i nuovi organi istituzionali, il nuovo capo dell’esecutivo e il nuovo parlamento. Le elezioni non si sono mai tenute. Di quella tornata elettorale fantasma resta in piedi solo la Hnec, la Commissione Elettorale, largamente sostenuta – e finanziata – dalla comunità internazionale per un voto che finora non si è mai tenuto. Il paese è diviso a metà, con due governi che si contendono il potere. A Tripoli regna Dbeibah, insediatosi a febbraio 2021 dopo i contestatissimi risultati del Forum di Ginevra. Nonostante il suo periodo di interim sia scaduto da quasi un anno, Dbeibeh resta in sella e continua a tracciare strategie geopolitiche, impegnando la Libia a sostenere alleanze mai ratificate dal parlamento libico. Dbeibeh è però un premier dimidiato: il suo governo “controlla” solo la zona occidentale del Paese. A Oriente il potere è nelle mani di un governo parallelo – mai riconosciuto dalla comunità internazionale – guidato da Fathi Bashaga, già ministro dell’Interno ai tempi dell’esecutivo guidato da Fayez Al Serraj. “Italia e Turchia concordano sulla necessità che si arrivi alla stabilità della Libia. Lavoreremo insieme per far sì che si arrivi a elezioni che permettano al Paese di governarsi. Roma e Ankara lavorano per coinvolgere anche altri interlocutori. Svilupperemo iniziative congiunte, ho invitato l’inviato dell’Onu a Roma, concordiamo che partecipi l’Onu a queste iniziative. La stabilità in Libia vuol dire anche ridurre i flussi migratori”. Afferma Tajani al fianco del ministro turco ad Ankara. Nel frattempo restano intatti i drammi vissuti dalla popolazione libica, alle prese con una spaventosa crisi economica e migratoria.

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