Politica

Il Pd sceglie la leadership della coalizione alla vittoria

di Edoardo Sirignano -

STEFANO BONACCINI ELLY SCHLEIN ©imagoeconomica GIANNI CUPERLO


Non può invocare “cambiamento” chi causa la debacle

Il Pd si sveglia sempre tardi. È troppo semplice dire abbiamo sbagliato dopo essere arrivati venti punti indietro agli avversari. Lo direbbero anche i bambini. Il problema, invece, è capire perché si è arrivati a tale risultato o meglio ancora dove è finito quel grande partito che riusciva a ottenere il 40 per cento alle europee e che certamente non si accontentava di essere la prima forza della minoranza. Quella forza è ormai un ricordo. Le ultime regionali ne sono la prova. Come dimostrano i dati, la strategia del gotha rossa, sin dal principio, è una sola: non vincere per blindare la leadership della coalizione. Il carrozzone, guidato da Letta, comprendendo che il vento tirava a sfavore, non per meriti della sola Meloni, rinuncia alla competitività per salvare la corona del centrosinistra. Questa è la realtà. Strategia, però, che rischia di minare per sempre quel principio dell’alternanza, che ha caratterizzato la nostra democrazia da quando è finito il secondo conflitto mondiale. Il Pci certamente non ha mai fatto le liste con la consapevolezza di perdere. Pur sapendo di battersi contro l’invincibile armata della balena bianca, i compagni non hanno mai rinunciato a mettere sul tavolo la tattica migliore e gli uomini più forti per giocarsi la partita fino al novantesimo.

I mea culpa

Le giustifiche dei candidati alle primarie, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, non bastano a cancellare quanto accaduto. In modo particolare le parole del governatore dell’Emilia, nei fatti sponsorizzato da quel vertice che si è accontentato della “sconfitta dignitosa”, devono avviare una riflessione. A dir poco ridicolo, il suo appello alla “nuova classe dirigente”. Non potrà certamente dire ai suoi sponsor di fare un passo indietro. Può, invece, essere una strada percorribile la svolta a sinistra invocata dalla sfidante. L’indistinto di Letta, a parte la sopravvivenza, non è riuscito a rendere competitivo un campo, che nel resto d’Europa invece fa la parte del leone. Nessuno può dire che la strada identitaria sia quella giusta, ma certamente è peggio ancora girarsi dall’altra parte, far finta di nulla. Stesso ragionamento vale per le continue stoccate agli alleati. Sbaglia il viceré di Modena quando sostiene che M5S e Terzo Polo sono la causa della debacle. La vera ragione del crollo è quel Pd, che trovatosi davanti a un bivio non ha saputo scegliere. Il cambiamento, invocato dal sindaco Dario Nardella, doveva avvenire subito dopo le politiche. Il Nazareno, invece, preferisce ripetere lo stesso film, la medesima ambiguità, che consente ai soliti di conservarsi la poltrona, ma non di spuntarla sugli avversari. I dem devono sapere, cosa vogliono essere da grandi: tornare alle origini come predicano Schlein e Bettini o ricominciare con quel progetto moderato finito con Renzi. Le prossime primarie, che si svolgeranno tra quindici giorni, pertanto, serviranno non solo a scegliere il nuovo segretario. Diranno, piuttosto, se in Italia può esserci ancora un’opposizione oppure, come è accaduto in Lombardia e Lazio, bisogna avere la consapevolezza di essere più deboli e quindi di accettare la sconfitta sin dai blocchi di partenza.

Sos astensionismo

Lo stesso astensionismo, di cui tanto si parla, chiede una scelta, qualunque essa sia. L’unica certezza di queste regionali è che c’è ancora un popolo che crede nel Pd e nella sua importanza. Altrimenti non l’avrebbe preferito al M5S e al Terzo Polo. Organizzazione, storia e radicamento sono aspetti che contano in politica. Non basta Conte che urla “apriamo le sezioni” per battere il centrodestra. Occorre, al contrario, una classe dirigente che le guida, una scuola politica e perché no un qualcosa di plurale. L’elefantiaca macchina del Pd, pur avendo mille difetti, è certamente più solida della piattaforma pentastellata. Il problema, però, è che pure il migliore esercito se non ha un piano, un generale e soprattutto un obiettivo, rischia di impantanarsi. Dalla politica estera al lavoro, i dem devono differenziarsi. Altrimenti lo stagno dell’indistinto si trasformerà per loro in sabbie mobili da cui è impossibile venirne fuori. La vera sfida per il Nazareno sarà portare domenica 26 febbraio almeno 500mila italiani ai gazebo. Se tale obiettivo non sarà raggiunto, l’attrattività che lo caratterizza non funziona più e ciò è un rischio, che nessuno, la stessa Meloni, si augura. Così muore la democrazia.

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