Primo Piano

IL QUASI RICORDO DELLE FOIBE

di Domenico Pecile -

COMMEMORAZIONE DELLE FOIBE NEL QUARTIERE TRIESTE MANIFESTAZIONE FIORI LAPIDE COMMEMORATIVA IN MEMORIA DEI MARTIRI DELLE FOIBE


Chi è nato, chi è vissuto in territori come quelli dell’Alto Adriatico orientale, territori contesi tra italiani e jugoslavi, soprattutto croati, sapeva bene cosa significassero le divisioni più politiche che antropologiche, più legate alla lotta per la determinazione degli Stati nazionali che a etnie contigue. E con il senno di poi sappiamo che quella convivenza tra la fine della seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra tra identità miste, quella commistione socio-politica e anche religiosa era fragile, troppo fragile. E lo era in virtù del fatto che era determinata da strategie geopolitiche degli Stati, nella fattispecie l’Italia fascista e post fascista e quella che sarebbe diventata la Jugoslavia comunista del maresciallo Josip Broz Tito. La rimozione collettiva su quella che è stata la tragedia delle foibe – e che tuttora è materia divisiva e ideologica nella migliore tradizione del manicheismo politico italiano – ha due principali origini, la prima di carattere politico interno all’Italia, anzi, al confine orientale, l’atra è legata a una strategia vocata alla realpolitik che è rimasta tale fino alla caduta del muro di Berlino e allo sgretolarsi del grande condominio-lager del comunismo. I profughi dalmati, giuliani e quarnerini che nel periodo compreso tra il 1945 e il 1956 (il tricolore era tornato a sventolare a Trieste soltanto il 26 ottobre di due anni prima) non ebbero da parte italiana l’accoglienza che avrebbero meritato, erano considerate persone di serie B perché fasciste. Ma erano soprattutto profughi, erano gente disperata in fuga dalla dittatura. Erano italiani. Italiani sfuggiti alle foibe o alle deportazioni titine, erano italiani di Pola, di Parenzo, di Rovigno, di Spalato, di Ragusa, costretti a lasciare le loro case dopo il febbraio 1947, in seguito al trattato di pace di Parigi che li aveva annessi alla Jugoslavia. Non a caso la maggior parte – come testimoniano gli storici – morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione e quindi gli infoibati rappresentano un numero relativamente ridotto rispetto a tutte le morti (si stima tra le 3 e le 5mila persone). Dall’altro canto – e questa è la seconda causa della rimozione – nessuno, nemmeno l’Italia, aveva interesse a svegliare il “can che dorme”, visto che il maresciallo jugoslavo, ancorché dittatore comunista, aveva avuto il merito agli occhi dell’Occidente democratico di avere compiuto lo strappo da Stalin e di avere creato il gruppo dei Paesi non allineati. Insomma, tutti temevano un incidente diplomatico proprio al confine orientale, l’ultima barriera al comunismo. Venuti meno questi due presupposti la tragedia delle foibe (e non erroneamente il genocidio, come ebbero modo di definirla sia l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e ripetuto dall’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella forse con un eccesso di captatio benevolentiae) è finalmente potuta venire alla luce e fare, a pieno titolo, il suo ingresso nella nostra storiografia. Ma immediatamente si è trasformata nell’ennesima miccia che incendia il dibattito politico che ancora, evidentemente, non è stato in grado di metabolizzare l’orrore del regime fascista e le trucide vendette comuniste. Sia la giornata del 25 aprile sia quella del Ricordo hanno così i loro partigiani. E la “sacralità” della prima, che onora la riacquistata libertà, non può né oscurare né negare che ci sono state anche altre vittime, figlie di orribili vendette. Territori contesi, si diceva. Che già durante la guerra di liberazione avevano palesato la specificità di un territorio dove la posta in gioco era più alta e più complessa che nel resto dell’Italia. Qui, infatti, sono state compiute le più grandi efferatezze talché è notorio sentire affermare che il Friuli Venezia Giulia aveva partorito i fascisti più spietati (nessuno può dimenticare lo stupro etnico compiuto ai danni della minoranza slovena di tutta la zona confinaria con l’imposizione, manu militari, di un’italianizzazione violenta e feroce) e i comunisti più crudeli (le brigate Garibadi erano in combutta con i partigiani titini che sognavano l’annessione del Fvg fino all’Isonzo (quindi Trieste, Monfalcone e Gorizia) se non addirittura fino al Tagliamento). L’episodio dell’eccidio di Porzus con la fucilazione nel bosco Romagno di 17 partigiani delle Brigate Osoppo, formazione di orientamento cattolico o laico-socialista, da parte dei garibaldini rossi filo titini, gappisti appartenenti al Partito comunista rappresenta uno dei paradigmi della specificità su cosa è stata la guerra civile nel confine orientale. Un dramma, dunque, che anche sulle foibe va ben oltre le vie di fuga che continuano a nascondersi dietro le semplificazioni negazioniste o le revanches, che odorano di vendetta, dei nostalgici del ventennio.

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