Attualità

Il secolo di vita del partigiano killer

di Ivano Tolettini -


Compie un secolo di vita uno dei protagonisti del venerdì più nero della storia vicentina del Novecento, marchiato con il sangue di decine di vinti, a due mesi dalla fine della seconda guerra mondiale. Una pagina che trasuda odio dopo il Ventennio molto duro in una città operaia come Schio. È la sera del 6 luglio 1945 quando il commando di 12 partigiani delle Brigate Garibaldi, in veste di poliziotti ausiliari che in teoria devono assicurare l’ordine pubblico, entra in azione nelle carceri di quella che è conosciuta come la Manchester d’Italia, perché vi è sorta nell’Ottocento la Lanerossi. Giampaolo Pansa scrive che i partigiani gettano alle ortiche il loro onore e i valori della Resistenza che fondano la nostra Repubblica sui valori della libertà e democrazia, ammazzando civili fascisti che non rappresentavano un pericolo per una barbara sete di vendetta. Il tragico bilancio di quello che passa alla storia come l’ “Eccidio di Schio”, che ebbe vasta eco non solo in Italia in quel caldo luglio di quasi 78 anni fa, parla di 54 morti, di cui 14 donne, 19 feriti, 16 illesi e 13 nascosti o graziati.
LA STRAGE ASSURDA
Guida la pattuglia dei partigiani killer Valentino Bortoloso, nome di battaglia “Teppa”, ventiduenne di Schio nato il 24 marzo 1923. È cresciuto in una famiglia cattolica (“diventai comunista in prigione”), partito per la campagna di Russia come carabiniere, dopo l’8 settembre gira le spalle a Salò ed entra nelle fila della Resistenza. In battaglia contro i nazifascisti si distingue per il coraggio e il valore. Oggi è l’ultimo sopravvissuto di quello che conversando per la prima volta con un giornalista il 27 aprile 2000, ammette a chi scrive che “l’eccidio fu un imperdonabile errore perché pensavamo di fare giustizia mentre facemmo il gioco degli inglesi”. Dopo la fine della guerra, infatti, il responsabile delle autorità alleate a Schio era il capitano inglese Stephen Chambers. “Verso la fine di giugno – ricorda Bortoloso – l’ufficiale diramò un appello in base al quale i detenuti nel carcere del “Baratto” senza prove di collusione con il nazifascismo ai primi di luglio sarebbero stati liberati”. Il clima in città si surriscalda. C’è grande tensione perché una prima amnistia è stata emanata. “Seguono proteste e cortei che a fatica noi della polizia ausiliaria e i carabinieri riusciamo a placare, la gente ci chiedeva giustizia”, aggiunge Teppa. È in quel contesto che, come scrive lo storico locale Ezio Maria Simini, “Abele uccise Caino”. La questione di fondo in quei giorni, osserva un altro ricercatore storico, Ugo De Grandis, è che “resta irrisolta la giustizia post bellica: degli oltre 350 fascisti fermati dopo la Liberazione, più di 250 sono già stati liberati, mentre appare evidente che la maggior parte delle denunce sono state fatte sparire”. E all’inizio di luglio arriva a Schio anche la notizia che dei 12 antifascisti deportati a Mauthausen uno solo è sopravvissuto ed è ridotto a uno scheletro. Così come il ritrovamento dei poveri resti del partigiano Giacomo Bogotto sepolto vivo dai fascisti con un grosso sasso sopra da 30 chili. “Volevamo selezionare i detenuti, avevamo una lista – ricorda Bortoloso – ma nell’oscurità della prigione disposta su due piani si scatenò il caos perché c’erano più di cento persone, non capimmo più nulla, e le armi cominciarono a sparare. Fu una strage inutile e assurda”.
PROCESSI E PROTEZIONE
Condannato a morte dalla Corte Alleata di Vicenza il 13 settembre 1945 assieme a quattro complici – la pena è convertita nell’ergastolo il 3 ottobre 1946 -, Bortoloso lascia il carcere di Piacenza il 29 luglio 1955. Dopo tre processi, l’ultimo dei quali a Milano, tutto il commando, compreso il mandante Igino Piva, rivoluzionario di professione, è condannato in parte in contumacia. Massimo Caprara che fu segretario particolare di Palmiro Togliatti, il 2 settembre 1990 racconta al Giornale di Indro Montanelli che parte dei responsabili del massacro si presentò a Roma nel suo ufficio al ministero di Grazia e Giustizia chiedendo di parlare con Togliatti per chiedere “protezione”. “Ma sono pazzi”, disse il leader del Pci che non li volle vedere. Fuggirono però in Cecoslovacchia.
RICONCILIAZIONE
Il 3 febbraio 2016 Bortoloso e Anna Vescovi, figlia di una vittima, firmarono la riconciliazione davanti al vescovo Beniamino Pizziol (nella foto). Un percorso iniziato ai primi degli anni Duemila col lavoro di sensibilità del Comune e dell’allora sindaco di Schio, Luigi Dalla Via, proseguito dal successore Valter Orsi.“Ho pagato – conclude Bortoloso -, certo col senno di poi l’Eccidio non sarebbe mai successo. Fu un disastro. Ma il senno di poi non serve a nulla. Quella sera non c’erano nemmeno i carabinieri, la prova che qualcuno, gli inglesi in testa, voleva che andassimo nel carcere per delegittimare la sinistra”. Teppa, allo scoccare del secolo, ne è ancora convinto.

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