Editoriale

IL TESORO SPARITO DEI CAPIMAFIA

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


La stravagante storia del superlatitante Matteo Messina Denaro munito di green pass, Rolex d’oro, montoni e abiti firmati è fatta di pillole che, dal giorno dell’arresto, lunedì, cominciano a mettersi in fila. Non solo le pillole del suo harem di donne segrete, sfuggite a tutti, e simboleggiate da quel Viagra trovato nel suo covo al paesello, in una strada qualsiasi, sotto gli occhi di molti. E nemmeno le pillole del tumore, quel cancro operato al colon e degenerato in metastasi al fegato che lo sta uccidendo, ma che prima ancora di mandarlo all’altro mondo, l’ha fregato in questo mondo qui, nel suo, dove latitava, indirizzando i carabinieri del Ros dopo trent’anni di buchi nell’acqua verso la clinica La Maddalena di Palermo.
No, le pillole sono la presunta totale assenza di indizi prima. Le pillole sono le storie di questi trent’anni da fantasma. E girano intorno a un interrogativo: c’è qualcuno che ha protetto Matteo Messina Denaro in questi anni? E che magari ha protetto anche i Corleonesi? E molto di questa domanda dovrebbe trovare risposta nelle prossime ore, dopo che il Ros avrà passato davvero al setaccio il cosiddetto Covo di U’ Siccu. Perché, se la storia delle stragi, della mafia corleonese, scritta in questi anni non sta tutta appesa al nulla, e se davvero questo arresto è arrivato come un fulmine a ciel sereno per il boss e per i suoi accoliti, allora in quella casa di Campobello di Mazara, vicino alla sua natia Castelvetrano, dovremmo trovarci un tesoro. Non soldi. Non armi. Che già è strano. Dovremmo trovarci i faldoni, passati di mano in mano – secondo le ricostruzioni di questi anni con un occhio chiuso dello Stato – da Totò Riina fino a lui. Dovremmo trovarci, in parole povere, l’unico vero tesoro di un capomafia. I documenti di Cosa Nostra, la chiave magica che dà accesso ai conti, ai ricatti, alla ragnatela su cui si fonda il potere mafioso, che non è fatta di singoli benestanti di questa o quella città che ti danno una mano, ma di un sistema di a tela di ragno che va dal potatore delle piante lungo il vialetto di casa, fino alle banche, e poi fino allo Stato. I tentacoli nella Repubblica che la Repubblica medesima cerca dai tempi di via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo. L’abitazione di Salvatore Biondino. L’uomo che guidava l’auto su cui fu arrestato Riina proprio il 15 gennaio del 1993, 30 anni esatti prima dell’arresto di Messina Denaro a poche centinaia di metri da quello stesso luogo.
Finora però non sono mai spuntati. Sarà stata la concitazione di quei momenti, ma la casa di Don Salvatore, confuso (o forse non proprio confuso) per un anonimo autista, mentre invece era una delle tessere mancanti del puzzle, il capo mandamento di San Lorenzo, che aveva riunito il gotha degli stragisti, fu perquisita con tyroppe ore di ritardo dall’arresto. Stessa trama per la perquisizione, tardiva, alla villa di Riina, che arrivò dopo i “pulitori”. Così ci fu la staffetta del tesoro di Cosa Nostra: i documenti del capo della cupola. Quando l’Italia si risvegliò era troppo tardi, le carte erano già sparite. Ma chi era stato scelto come nuovo custode di quello scettro: Matteo Messina Denaro. Oggi in carcere a L’Aquila. E che, se tutto è andato come raccontato, non dovrebbe avere avuto il tempo né il modo, almeno stavolta, di far ripulire casa. O forse sì?

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