Attualità

IN GIUSTIZIA – Figli di nessuno

di Redazione -


di ELISABETTA ALDROVANDI

È un tema bruciante, quello dei “figli nati con l’utero in affitto”. Ossia di quei bambini che, non potendo nascere naturalmente per problemi di fertilità, per assenza di un partner, o per mancanza di uno degli elementi fondamentali come ovuli spermatozoi, vengono concepiti al di fuori e l’ovulo fecondato viene poi impiantato nell’utero di colei che crescerà quel figlio per nove mesi, fino a quando lo partorirà e lo consegnerà ai genitori.
Sgomberando il campo da problemi di carattere etico, imprescindibili ma che complicano la ricerca della soluzione, lo stato dell’arte, in Italia, è che la maternità surrogata è vietata in base a una legge del 2004, e non è possibile riconoscere un figlio come proprio se non al di fuori dei casi stabiliti dalla legge, ossia perché il figlio nasce all’interno del matrimonio, o perché viene riconosciuto successivamente, o perché viene adottato.
Ma soltanto le coppie eterosessuali possono riconoscere legalmente un figlio, così come soltanto quelle sposate eterosessuali possono adottare un bambino. E qui si pone la differenza per gli omosessuali, che non solo non possono unirsi in matrimonio, ma non possono neppure riconoscere, entrambi, figli nati da madri surrogate.
In pratica, il figlio di una coppia italiana omosessuale nato con la maternità surrogata all’estero (per esempio, negli Stati Uniti o in Ucraina, poiché nella quasi totalità degli Stati europei è una pratica vietata dalla legge) è figlio naturale, ossia biologico, soltanto del genitore che ha donato il seme per fecondare l’ovulo, mentre l’altro non ha nessun legame di parentela, neppure a posteriori, con il bambino, essendo appunto vietata l’adozione per le coppie non sposate, e non potendosi, gli omosessuali, sposare.
Ciò significa che quello della maternità surrogata è solo la punta dell’iceberg, e che la privazione di determinati diritti nei confronti di chi non rientra nello schema della eterossessualità, come il matrimonio, comporta, a cascata, pure l’impossibilità, per un bambino figlio di due omosessuali, di avere legalmente due genitori.
Spiegato in questo modo, il problema sembra di facile soluzione: si cambi la legge parificando qualsiasi genere di relazione.
Eppure, così non è, poiché entra in gioco l’elemento di disturbo, che ha un ruolo determinante nella ricerca affannosa della soluzione: l’etica. È etico pagare qualcuno perché porti avanti la gravidanza di un bambino che, appena nato, sarà strappato dalle braccia della madre biologica e dato a due persone che hanno pagato, e a volte scelto, le caratteristiche di quel figlio, opportunamente selezionate da una sorta di catalogo?
In realtà già questo avviene, perché le coppie eterosessuali con problemi di fertilità che ricorrono a questo tipo di fecondazione, possono, per legge, riconoscere entrambi il figlio ancorché partorito da una donna all’uopo “affittata”.
Il tema riguarda esclusivamente la preferenza sessuale. Ossia, di fondo, si ritiene che due gay non possano crescere un figlio perché se per natura siamo concepiti tutti dall’unione di un maschio e di una femmina, è evidente che di quello si ha bisogno per crescere equilibrati.
Una tesi, questa, che trova conforto non solo nelle modalità con cui da millenni gli esseri umani procreano e si riproducono, ma anche nel fatto che strumentalizzare l’incapacità genitoriale delle coppie eterosessuali non giustifica a priori il fatto che quelle omosessuali siano migliori.
Qui, è in gioco la disponibilità ad amare, a sacrificarsi, a comprendere appieno il significato e l’impegno che comporta crescere un altro essere umano. E distinguere a priori ciò che è un diritto, quello alla genitorialità, da ciò che è un desiderio da soddisfare a qualsiasi costo, è il primo passo.
Per rispettare se stessi, ma soprattutto quei bambini che non hanno chiesto di nascere. Ma una volta nati, devono essere tutelati, sotto ogni aspetto.


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