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La morte di Indi Gregory. Mario Riccio (caso Welby): “Il miglior interesse”, Eugenia Roccella: “Lo Stato non può uccidere”

di Eleonora Ciaffoloni -


La morte di Indi Gregory: Tre domande: rispondono Mario Riccio, il medico che aiutò a morire Welby e la Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Eugenia Maria Roccella.

Indi Gregory è morta. Prima o poi sarebbe successo. È giusto che sia avvenuto così?
Riccio: Sì, in nome del miglior interesse, così espresso dai giudici inglesi. Ho avuto modo di leggere degli stralci della sentenza che non solo ha mostrato un giudice estremamente accorato e preso da questa vicenda, ma che ho trovato anche estremamente completa, articolata e che ha preso in considerazione tutte le varie ipotesi, anche quelle proposte dal governo italiano e dal Bambino Gesù che, tuttavia, non proponevano nulla di particolare, se non l’opportunità di accompagnare la bambina alla morte. Indi era ricoverata all’ospedale di Nottingham, uno dei più importanti centri pediatrici europei e non mancavano le consulenze specialistiche e i mezzi per poter essere curata al meglio.

Roccella: Certo che no, non è assolutamente giusto. La piccola Indi è morta lontano dalle mura della casa dove ai suoi genitori è stato impedito di riportarla, è morta privandola della possibilità di respirare, ed è morta nei tempi stabiliti da un tribunale. Ciò che dovrebbe far riflettere è che al centro di questa vicenda non c’è stato un accanimento terapeutico o false promesse di guarigione, ma la negazione dell’elementare libertà di cura, e cioè della possibilità di optare per una diversa opzione terapeutica in una struttura di eccellenza mondiale come il Bambino Gesù di Roma. Nella patria del liberalismo, in un’epoca di trionfo dell’autodeterminazione, è sorprendente che venga negata la libertà di cura. Questo ci fa capire come dietro a certe scelte ci possano essere tensioni e problematicità non solo etiche, per esempio la pervasività di criteri economicistici, che possono mettere in dubbio l’universalità del servizio sanitario. Un patrimonio che in Italia ci teniamo ben stretto.


Ci sono due questioni: la vita e la morte, che dividono anche eticamente. Poi c’è la questione di chi sceglie: il paziente o lo Stato. Cosa pensa?
Riccio: C’è una grossa confusione. Il problema, in questo caso, non è focalizzato sul chi sceglie, perché parliamo di un paziente neonato, un soggetto totalmente incapace di comprendere la situazione e di esprimere un giudizio. Non solo, i genitori, sia nella giurisdizione inglese, che in quella italiana, non sono gli unici esclusivi decisori. Deve intervenire il cosiddetto “migliore interesse”, per cui i genitori vengono sollevati dalla responsabilità genitoriale. Dimentichiamo l’idea che i genitori hanno potere di vita e di morte sui figli. In questo caso è stato deciso che il miglior interesse per la bambina fosse quello del fine vita, perché non c’era alcuna possibilità di sopravvivenza, nessuno aveva offerto nulla di concreto e ogni eventuale trattamento sarebbe stato invasivo, di sofferenza. Non succede solo in Inghilterra. Anche in Italia ci fu un caso nel 2008, ma al contrario: quello di Antonio Marasco, un bambino nato senza reni e con disfunzioni. I genitori non volevano procedere ai trattamenti, consapevoli che il figlio non sarebbe sopravvissuto, ma ci fu una vicenda giudiziaria complicata, perché i medici volevano operarlo. Anche lì la volontà dei genitori non fu rispettata.

Roccella: La risposta è insita nella sua domanda: la vita e la morte non sono la stessa cosa. Non sono opzioni equivalenti, tantomeno possono esserlo per lo Stato. Lo Stato può intervenire nelle scelte mediche solo in situazioni estreme, e comunque in favore della vita. Ma il punto dirimente non è solo chi decide, il punto è cosa si decide. Focalizzare l’attenzione solo su chi debba decidere significa sbagliare obiettivo, perché vorrebbe dire che le due scelte si equivalgono. E invece non è così. Innanzi tutto perché la morte è una decisione definitiva, alla quale non si può più rimediare, da cui non si può tornare indietro. E poi perché deve esserci sempre un orientamento a favore della vita, della tutela dei fragili, come i piccoli, gli anziani e i malati, altrimenti si perde il senso della fratellanza e della solidarietà all’interno di una comunità. Nessuno mette in discussione la libertà delle persone, anche di rifiutare le cure, ma lo Stato non può in nessun caso, a mio parere, dare la morte.


In Italia il dibattito è stato bianco contro nero. Su temi così delicati è possibile un dialogo fra posizioni diverse?
Riccio: Il tema è quello dei diritti civili. Solitamente non ci sono possibilità di poter conciliare tra parti opposte, perché il principio è: o si riconosce il diritto di autodeterminazione – lasciando chi non intende utilizzarlo di non farlo -, oppure no. Poi possono essere fatte delle leggi per definire meglio i confini della materia. Se si parla di autodeterminazione o questa si riconosce o non si riconosce. Per i diritti civili vale il principio che quando io raggiungo un diritto, non diventa un dovere per gli altri. Non si deve cadere nella finta incomprensione di un diritto che diventa obbligatorietà.

Roccella: Mi auguro di sì, ed è quello che bisogna fare, ma è necessario partire da un terreno comune e cioè dall’idea che il cuore di una comunità umana è la tutela della persona, a cominciare da chi è più fragile e bisognoso. Per questo in campo medico bisogna puntare sull’alleanza terapeutica, che veda medico e paziente cooperare partendo dalla scelta e dalla libertà di quest’ultimo, ma in un quadro di solidarietà e di cura.


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