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INFODEMIA, INFORMATION ANXIETY,  RISK SOCIETY E LA RISONANZA MEDIATICA

di Redazione -


 

Se partiamo dal presupposto che il fruitore/lettore inserisce nel processo di comunicazione più informazioni ed emozioni del giornalista, possiamo considerare i  media  come  specchi che rimandano  le ansie respirate dal lettore nella vita di tutti i giorni. La notizia cattiva scaccia quella buona anzitutto nel vivere quotidiano, prima ancora che nei titoli cubitali. È stato denominato “asimmetria negativa” il fenomeno che mette in rilievo le informazioni negative piuttosto che quelle positive. Nel gergo giornalistico si dice “Good news, no news”. I media attualmente sono coinvolti nell’allarmismo generale che  talvolta perde la linea d’orizzonte, altre volte fa emergere le angosce latenti del pubblico. Da qui il sensazionalismo, le ricostruzioni drammatizzate, la mitizzazione dei mostri-eroi, lo scontro delle parole a mezzo stampa. Il media event, carico di tensione emotiva e di significati simbolici, è così enfatizzato dai mezzi di comunicazione di massa: “fuori dall’ordinario” o comunque soggetto a forti margini di imprevedibilità, produce uno stravolgimento della routine dei mezzi d’informazione e della percezione del loro pubblico. Drammaticità assumono le catastrofi naturali (alluvioni, terremoti), le sciagure  aeree, ferroviarie,  i fatti di sangue e di violenza: guerre, stragi, attentati (quello delle Twin Towers dell’11 settembre 2001 è il simbolo dell’inizio millennio). Oggi il coronavirus. Gli studi sugli eventi mediali hanno preso avvio nel secondo dopoguerra (in particolare dagli anni ’60-’70); una sistematizzazione importante è stato il lavoro di D. Dayan e E. Katz, Le grandi cerimonie dei media (titolo originale Media events, 1993). La ricerca sulla pubblica opinione, sulla persuasione e sugli effetti dei media, si è nutrita in questi anni di studi antropologici sull’autorità e di analisi sulla loro fruizione. Attraverso i media è possibile conoscere la “società del rischio” secondo gradualità progressive di approfondimento che non sono del tutto estranee alle modalità con cui il ricevente recepisce le notizie e reagisce a esse, secondo la distinzione delineata dagli esperti di tecnica della comunicazione, fra le seguenti tipologie: 

  • informazione generica che tratta indistintamente tutte le principali situazioni di rischio che “incombono”, più o meno direttamente, sul bacino di utenza dell’emittente; tipica di una comunicazione indiretta, totalmente gestita dai media più che dalle autorità competenti, in fasi che ancora non rivestono carattere di allarme;
  • informazione generalizzata relativa a una specifica tipologia di rischio, ma aperta a un bacino di riceventi più ampio, operata sia dai media e sia “direttamente” dalle autorità competenti; mira a una completa informazione e “istruzione tecnica” dell’opinione pubblica, ove necessario, per affrontare “stati di pericolo”;
  • informazione specifica su una peculiare situazione di rischio, con particolare illustrazione dei comportamenti da tenere e delle forme di autoprotezione da attuare, spesso disciplinate da leggi e provvedimenti ad hoc1 . Troppe notizie. Ai tanti stress e travagli che assalgono l’uomo si aggiunge oggi l’ansia da news.  Troppe notizie,  troppi  input colpiscono il nostro cervello,  sottoponendo  tutti  (addetti  ai lavori e  opinione pubblica) al rischio di non sapere più distinguere e, alla fine, di non capire più nulla, o meglio di non riuscire a seguire l’evolversi degli avvenimenti: fino a cadere in stati di ansia. Questa sindrome è stata catalogata da uno studioso americano, Richard Saul Wurman, come information anxiety; fenomeno che non tende ad attenuarsi. Il rilievo immediato, scorrendo quotidianamente i titoli dei giornali italiani, è che la stampa è coinvolta nell’allarmismo generale, spesso come protagonista. Il sensazionalismo degli avvenimenti è grande e ancor di più lo sono le ricostruzioni  delle circostanze, drammatizzate  dalla  maggior parte dei reporter.  Siamo talvolta al patologico. È l’affermarsi di una risk society, dove tutto è in trasformazione, nessun tabù regge alla prova, le ufficialità sono costantemente smentite.  La paura oggi è una “merce”: i mass media la offrono a chi la chiede. Aumenta, così, la information anxiety e i ritorni negativi d’immagine per enti, istituzioni, organizzazioni e aziende. Attraverso una analisi quantitativa e qualitativa dei titoli dei quotidiani – durante la pandemia del coronavirus – si rileva che sul lettore sono scaricati presagi inquietanti sulle dimensioni del vivere quotidiano. E diventa un affanno stressante: lavorare, vivere isolati, garantirsi la sicurezza, difendersi da contaminazioni.

Al riguardo cito Mauro Masi, delegato italiano alla Proprietà intellettuale, che ha ricordato che Aviv Ovadya2 ha lanciato un nuovo allarme: l’evoluzione verso un rischio peggiore, una vera e propria distorsione non solo di alcune notizie ma della stessa realtà, o meglio, di quello che la Rete ci fa apparire come realtà. E ciò anche perché la tecnologia applicabile sul Web è già ora in grado di creare falsi che sembrano verosimili, se non addirittura veri. Il rischio vero che ci si prospetta, quindi, è di essere bombardati dalla disinformazione; e sarà più difficile distinguere ciò che è reale e vero da quello che non lo è3. Barbara Gallavotti sul “Messaggero” (27.02.2020) ha scritto, nell’editoriale titolato “Evitare l’infodemia”, dedicato alla “comunicazione inquinata”, relativamente alla diffusione del coronavirus: “se c’è qualcosa che crea ancora più angoscia di un’emergenza, è la sensazione che ci sia reticenza nel riferire i fatti. Questa sì, alimenta il panico e con esso le notizie incontrollate che viaggiano velocissime sul web. Proprio alle “bufale” pensa l’Organizzazione Mondiale della Sanità quando esprime preoccupazione per la infodemia, cioè per quella epidemia di (cattiva) informazione che, secondo gli esperti, si sta diffondendo “ben più rapidamente del nuovo coronavirus”. Per cercare di arginarla l’OMS ha chiesto ai social media più rilevanti di impegnarsi a rimuovere le notizie false e a indirizzare gli utenti verso fonti affidabili. E non è un caso che i siti specializzati in disinformazione – come scrive Antonio Nicita, commissario AgCom – dedichino quasi il 50% delle loro notizie al virus: abbuffate di vitamine, farmaci, ingegnerizzazione del virus in qualche laboratorio, sono notizie che “non ci dicono”, che “vogliono nasconderci”. D’altra parte, la bugia è sempre più forte di un ragionamento scientifico. 

Come ha scritto Hanna Arendt: “le menzogne sono spesso più plausibili, più attraenti per la ragione di quanto non lo sia la realtà, dal momento che il bugiardo ha il grande vantaggio di sapere in anticipo cosa l’ascoltatore desidera o si aspetta di sentire”. 

Al contrario, “la realtà ha la sconcertante abitudine di metterci di fronte all’imprevisto per cui non eravamo preparati”4.

Mauro De Vincentiis5

 

1 Cfr. “Le nuove frontiere dell’informazione fra rischio e sicurezza” di Marco Bernardini, Lithos, 2004.

2 Ingegnere informatico del Mit e Chief technologist al Center for social media Responsability (Università del Michigan).

3 Cfr. Mauro Masi: “La disinformazione a portata di tutti è un pericolo per la democrazia”, in “Milano Finanza” (28 marzo 2020),

4 Cfr. Antonio Nicita: “Il virus disinformazione e la modesta verità dei fatti”, in'”Avvenire”(9 aprile 2020).

5 Autore di “Comunicare l’emergenza. La gestione delle notizie che non si vorrebbero mai dare” (Ed. Centro di Documentazione Giornalistica,2ª edizione rivista e ampliata).


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