Attualità

INGIUSTIZIA – I numeri della mala

di Redazione -


di Elisabetta Aldrovrandi

Le prime tre città in Italia sul podio per numero di denunce ne contano in media oltre 5.000 ogni 100.000 abitanti. Parliamo di Milano, Rimini e Torino. O siamo un popolo che commette un sacco di reati. O che denuncia anche fatti che reati non sono.
L’alto numero di archiviazioni che ogni anno colpiscono migliaia di fascicoli giacenti sui tavoli delle Procure fanno propendere per la seconda ipotesi. Stando agli ultimi dati forniti (2020/metà 2021), viene archiviato oltre il 60% dei fascicoli. Solo una minoranza passa alla fase successiva, in cui la denuncia o il procedimento d’ufficio viene rinviato a giudizio. Si tratta di un fenomeno, quello delle archiviazioni, che ha subito un’impennata durante il 2020, “annus horribilis” sotto tanti aspetti, compreso quello del funzionamento della macchina della giustizia. Durante il Covid, su 600.000 procedimenti definiti, ben 390.000 sono stati archiviati, ossia più del 65%. È aumentata anche la durata dei processi: 684 giorni di fronte al tribunale monocratico (+13,1% sul 2019) e 727 giorni di fronte a quello collegiale (+9,8%). Una vera “mattanza” di procedimenti penali, ma anche di richieste da parte di cittadini che, a torto o ragione, si sono affidati a denunce o querele per ottenere tutela a un presunto torto subito. In particolare, a finire archiviati sono i procedimenti per i reati cosiddetti “bagatellari”, meno gravi da un punto di vista di allarme sociale, ma sicuramente più frequenti, ossia truffe, da quella sugli anziani e quelle informatiche, alle “truffe amorose”, ai furti, sia come scippi sia come furti in abitazione (la cui probabilità di scoprire l’autore è raramente sopra il 5%), allo spaccio di sostanze stupefacenti di scarsa entità, alle risse. Reati che, seppur considerati relativamente gravi dal nostro codice penale, creano elevato allarme sociale. Qualunque persona, infatti, tende a essere più preoccupata per lo spacciatore sotto casa o per il violento che si azzuffa per strada armato di coltello, che del trafficante internazionale di droga o dell’imprenditore che corrompe il politico. E questo perché nella nostra vita quotidiana è assai più facile venire coinvolti in un furto o un’aggressione, piuttosto che in un reato di riciclaggio o estorsione, più pesanti giuridicamente.

Perché i procedimenti penali vengono archiviati così spesso? Sicuramente per “tenuità” del fatto, ossia perché non vengono riconosciuti meritevoli di un dispendio di risorse e tempo rispetto alla gravità (anzi, tenuità) del reato contestato. Per fare un esempio, la semplice offesa sui social, se non esplicitata in una minaccia grave contro la persona, e perpetrata da un account difficilmente individuabile perché magari risalente a una persona residente all’estero, difficilmente comporterà un rinvio a giudizio. Così come il furto di un oggetto di scarso valore. O lo spaccio di una modica quantità di sostanza stupefacente con basso indice tossicologico. Per questo motivo, da più parti si invoca la necessità di aumentare, da un lato, strumenti diretti a depenalizzare reati che possono risolversi in sede civilistica, e dall’altro a eliminare la obbligatorietà dell’azione penale, lasciando al pubblico ministero la facoltà di esercitare una sorta di scrematura iniziale tra le denunce che presumibilmente sottendono un reato meritevole di approfondimento e sanzione penale, da quelle prive di questi requisiti. Suggerimenti condivisibili, ma che tendono a ridurre ancora di più la fiducia dei cittadini in un sistema che, dal penale al civile, mostra da decenni falle risolvibili solo con l’implementazione seria e programmata di risorse adeguate e sufficienti, sia in tema di sanzioni veloci ed efficaci, sia in tema di prevenzione, soprattutto per i crimini contro la persona.


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