Cultura & Spettacolo

Io, Gianni e l’Italia che ce la farà

di Rita Cavallaro -


“L’Italia è un paese straordinario e riuscirà a superare tutti i suoi problemi”. Se ci crede l’uomo che ha creato l’impero della Medusa, diventato l’icona italiana per eccellenza nel mondo, non può che essere così. Santo Versace, d’altronde, è stato fin dall’infanzia un visionario, capace di realizzare tutti i sogni di suo fratello Gianni. E Gianni Versace era il genio creativo, l’artista che ha cambiato il mondo, usando i “costumi” per affermare gli usi. Lo stilista che ha rivoluzionato la donna, che reso le super modelle simulacro in grado di incarnare la nuova libertà, scevra dalla connotazione sessuale. Gianni Versace è la divinità scesa in Terra per portare il bello. Ma uno spietato assassino l’ha strappato troppo presto al mondo, in quel terribile 15 luglio 1997, quando le immagini del corpo dello stilista riverso nel sangue davanti al cancello della sua villa Casa Casuarina, al civico 1116 di Ocean Drive a Miami Beach, furono mandate in diretta da tutti i notiziari internazionali, mentre migliaia di persone in lacrime si accalcavano sulla scena del crimine per portare fiori e biglietti. Il killer, che sparò due proiettili in testa all’icona della maison di moda italiana, in quel momento era un gigolò gay di 28 anni senza arte né parte, che voleva diventare grande. Negli ultimi mesi aveva ucciso quattro persone nella sua folle fuga disseminata da una scia di sangue attraverso gli Stati Uniti, tanto che il suo nome era finito nella lista dell’Fbi dei dieci ricercati americani più pericolosi. Il 27 aprile, a Minneapolis, Cunanan aveva massacrato a colpi di martello sul cranio il vecchio amico Jeffrey Trail, al quale aveva rubato la pistola, una Taurus 40. Con la stessa arma, il 3 maggio, sparò alla testa a David Madson, la sua seconda vittima. E partì per Chicago, dove il giorno dopo torturò a morte Lee Miglin. Il 9 maggio fu la volta di William Reese, un guardiano del New Jersey che il gigolò uccise soltanto per rubargli il pick-up, con il quale arrivò poi a Miami. Ma non era ancora abbastanza per Cunanan. Al serial killer serviva una vittima illustre, un nome simbolo che avrebbe potuto per sempre suggellare la sua fama e renderlo indimenticabile. Quest’uomo era Gianni Versace. Cunanan a Miami si mosse indisturbato per due mesi, durante i quali architettò l’omicidio. Probabilmente studiando le abitudini dello stilista. La polizia non lo individuò neppure quando il 7 luglio il killer andò in un banco dei pegni per impegnare una moneta d’oro da collezione rubata al ricco Miglin, la sua terza vittima. Nonostante Cunanan avesse compilando il modulo con i suoi dati personali reali e avesse indicato come domicilio l’hotel degradato in cui alloggiava, il commesso andò in ferie e non inoltrò subito il documento alla polizia. Così quel 15 luglio, il gigolò poté agire indisturbato: sorprese Versace mentre stava per entrare a casa e lo freddò con la Taurus 40. Dopo il delitto, il 23 luglio, una telefonata che segnalava un’effrazione in una casa galleggiante di Miami Beach portò all’operazione che si concluse con l’irruzione nella house boat, dove i detective trovarono Cunanan morto, riverso sul letto: si era sparato alla testa. Per venticinque anni suo fratello Santo, che con Gianni ha creato e reso grande la maison della Medusa, ha cercato il silenzio, ha esitato a parlare dell’omicidio, dei suoi sentimenti, quasi per mettere un muro che lo proteggesse, chiuso com’era in una realtà parallela dove Gianni non era morto. Ma oggi il fondatore della maison Versace rompe ogni indugio, nel libro Fratelli. Una famiglia italiana, edito da Rizzoli, in cui ripercorre la sua vita con Gianni e racconta particolari inediti nell’incredibile viaggio che li ha consacrati nella storia.

Santo Versace, perché ha scritto Fratelli?
Fratelli è un atto d’amore nei confronti di Gianni. È la storia della mia vita insieme a mio fratello.

Eravate molto legati, vero?
Io e lui siamo le due parti della stessa mela, le due facce della stessa medaglia. Ci completavamo, perché lui era il creativo eterno bambino e io il pragmatico vecchio saggio.

Quindi lei lo mitigava?
Non direi. La follia era reciproca, perché lui era il grande creativo, ma io su come fare l’azienda, sugli spazi da prendere, sugli investimenti da fare ero più pazzo di lui.

E siete partiti insieme. Non solo due fratelli ma anche capi di un impero che è diventato un’icona mondiale?
Noi siamo partiti per realizzare dei sogni. Gianni sognava e io andavo dietro ai suoi sogni. Lui voleva volare, ma io stavo attento che le sue ali fossero solide, che non fossero quelle di Icaro.

È bellissima questa immagine. E la sua voce traspare emozioni dopo tutti questi anni. Mi parli dei sogni di Gianni.
Il suo sogno era creare. Lui voleva fare le collezioni, sognava di fare belli l’uomo e la donna.

Si spieghi meglio.
Dice bene nella sua recensione Natalia Aspesi: Gianni va visto come un creatore di bellezza. Il suo sogno era rendere belle sia le donne che gli uomini. E addirittura è andato oltre ogni sogno, perché quello che ha fatto lui è straordinario. Ha tolto agli uomini tutti i problemi sui blocchi mentali, come l’introduzione dell’uomo senza cravatta. Lo ha liberato da qualunque legame, da qualsiasi lacciolo. E dato alle donne una libertà che non avevano prima, le ha rese libere di vestirsi e di essere se stesse fino in fondo. Ha dato loro libertà, bellezza, la vena erotica ma senza mai trascendere. È straordinario.

Gianni ha stravolto il concetto dell’angelo del focolare?
Lui quel concetto non lo intendeva neanche, perché ha avuto l’esempio di nostra madre Francesca, una donna che ha sempre lavorato, ha creato l’atelier, è stata sempre autonoma. Ha avuto un esempio di una donna libera e attiva.

Che per quei tempi in Calabria era un unicum, vero?
Infatti. Per questo Gianni ha sempre visto le donne come protagoniste. Come le ho viste pure io. Noi, grazie all’esempio di mia madre, abbiamo capito che le donne sono straordinarie e che sono meglio degli uomini. Con tutto il rispetto di mio padre Antonio, che era eccezionale, era un’altra persona che io ho amato e con il quale mi sono formato. Gianni invece ha imparato da nostra madre. E da questi due genitori straordinari sono nati due eccellenze straordinarie.

Mentre suo fratello creava le collezioni lei cosa faceva per lui?
Tutto il resto. Vede, la creatività non porta da nessuna parte se è da sola. Io ho creato le aziende, il commerciale, ho scelto tutti i negozi nel mondo, i più belli, mi occupavo della comunicazione, delle campagne fotografiche. Ho fatto tutto quello che serviva per far sì che la sua creatività si trasformasse in una realtà di successo.

E si occupava pure dei fidanzati di Gianni. Lei nel libro scrive che suo fratello si fidava così tanto di lei da chiederle anche di risolvere alcuni problemi privati. Scrive testualmente: “Mi chiese di liquidare fidanzati che stavano diventando molesti o che lui non sopportava più”.
È la dimostrazione che io gli risolvevo tutti i problemi. Ero suo fratello maggiore.

Vi siete mai scontrati su punti di vista differenti, perché magari lui voleva andare troppo oltre?
Tra i due quello che andava oltre ero proprio io. Lui sul piano della genialità e della creatività andava oltre il muro, oltre tutto, perché la genialità dalla fine del secolo scorso è stata solo Gianni. Non esiste nessuno come Gianni. Però io non mi fermavo di fronte a nulla. Ero un intenditore, colui che trasformava i sogni in realtà. Lui sognava, io realizzavo i sogni. E andavo oltre i sogni.

Ma il 15 luglio 1997 quei sogni si sono infranti per sempre. Cosa ha provato?
Con Gianni è morta anche una parte di me. Se riavvolgo il nastro nella mia mente, rivivo tutto. Lo struggente dolore della perdita di mio fratello. La violenza con cui la nostra famiglia, da sempre unita negli affetti e nel lavoro, è stata scaraventata nel lutto. Il vuoto, incolmabile, che Gianni ha lasciato nella storia della moda.

Cosa ricorda del momento in cui le comunicarono che suo fratello era morto?
Rimasi scioccato. L’unica cosa che riuscì a dire fu: “Gianni non è morto, Gianni è immortale”. Mi sono spezzato dentro, per mesi e anni, a cercare di capire l’incomprensibile. Nei primi quattro anni dopo la sua morte, quando potevo, nel fine settimana, andavo a dormire nella casa sul lago di Como, proprio nel suo letto. Lo cercavo, inconsciamente volevo riportarlo in vita. Il mio equilibrio era relativo, però ho sempre lavorato e cercato di andare avanti. Sono passati venticinque anni e ho capito che ricordare purtroppo non serve né mai servirà a comprendere né ad accettare, però ho anche capito che ripercorrere quei momenti è terapeutico e, in qualche modo, mi riavvicina al pensiero di Gianni e ne tiene viva la memoria fuori, nel mondo.

E come è riuscito a superare quella che è stata la tragedia più grande della sua vita?
Nella mia vita, in realtà, ho avuto due eventi tragici. La morte della mia sorellina Tinuccia, che aveva tredici mesi più di me, e la morte di un fratello, che aveva due anni meno di me. La sorellina l’ho persa quando aveva dieci anni per una peritonite. Lui me l’hanno portato via, ucciso a cinquant’anni. Quindi il primo trauma me lo sono trascinato, probabilmente senza capirlo, per tutta la vita. Dal secondo, se non fosse arrivata mia moglie Francesca, forse non ne sarei mai uscito.

Allora è stato l’amore a salvarla?
L’amore è l’unica cosa che ti libera dalle cicatrici, è l’unica cosa che ti può far guarire. Ed è stato l’amore che mi ha fatto rinascere.

Ci parli di Francesca De Stefano in Versace.
Io ho avuto la fortuna, diciotto anni fa, di incontrare una ragazza bellissima. Una brunetta calabrese, un peperino di Reggio Calabria, mia conterranea. Pensi che la nonna di mia moglie era cliente di mia madre. E la madre di Francesca era cliente di Gianni. Cioè ci conosciamo da sempre. Solo che lei è molto più piccola di me, abbiamo venticinque anni di differenza, e io non l’avevo vista prima, perché ero già partito dalla mia terra quando lei era bambina. Me la ricordo sul passeggino, si figuri.

Com’è scoppiato l’amore tra voi due?
Lei venne con sua madre a Milano, che aveva un appuntamento con me, perché voleva dei consigli. E si portò Francesca. Io vidi questa stupenda ragazza e poi da cosa nasce cosa. D’altronde, se guardi Michelangelo, Raffaello o Leonardo Da Vinci ti innamori dei suoi quadri. Ecco, Francesca è il mio quadro e io mi sono innamorato di lei. Quando è arrivata, Francesca ha agito con il suo amore, facendomi superare gli anni in cui sono sopravvissuto, ma non ho vissuto. Ora ho voglia di recuperare il tempo che ho perso.

E lo sta facendo felicemente con Francesca.
Sì, senza di lei non ci sarebbe stata la guarigione, non mi sarei mai ripreso da Miami, ne sono sicuro. E non ci sarebbe stato neanche il libro. Perché nel corso di questi anni, man mano che insieme ci liberavamo dal dolore, ho pensato che era arrivato il momento giusto di fare anche un atto d’amore verso Gianni e di raccontare quella che è stata la nostra galoppata insieme, il nostro percorso, la nostra straordinaria vita. La sua che si è fermata a 50 anni, la mia che durerà ancora per tantissimo tempo, perché io ora voglio vivere. Infatti nel libro, oltre a ripercorrere tutta l’infanzia e la camminata fianco a fianco con Gianni, vado anche oltre. Perché nell’ultima parte parlo del futuro.

Cosa c’è nel suo futuro?
Il cinema e l’amore per gli altri.

Lei infatti è presidente di Minerva Picture e con sua moglie avete istituito, l’anno scorso, la Fondazione Santo Versace. Ci racconti.
Sì con Minerva abbiamo vinto alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia il Leone d’Argento e il Leone della critica con il film Saint Omer, che in questi giorni è nelle sale. E nel segno del cinema, della cultura e dell’amore per il prossimo io e Francesca, che non abbiamo figli, abbiamo dato vita al nostro figlio più grande, quello che ci permetterà di aiutare tutti i fragili, sia i bambini che gli adulti, a prescindere dall’età. Vogliamo stare accanto a chi ha bisogno.

È questo l’obiettivo della Fondazione?
Con la Fondazione Santo Versace vogliamo lasciare una cosa nostra, che andrà oltre noi e ci rappresenti nei secoli a venire. È la continuazione di quello che ho fatto con Gianni, perché nel cinema c’è creatività, e puntiamo agli Oscar. Ci siamo messi nell’industria cinematografica perché vogliamo fare il grande cinema italiano, quello che è stato di Federico Fellini, di Vittorio De Sica, di tutti quelli che ci hanno preceduto vincendo l’Oscar. Dall’altra parte c’è la voglia di stare accanto ai fragili e aiutare chi ne ha bisogno, perché è una cosa che ci hanno insegnato i nostri genitori. Sia i miei che quelli di Francesca erano persone che hanno sempre dato. Abbiamo dei progetti in cui crediamo molto, sulla base del concetto che ho applicato nella mia vita, ovvero quello di fare sistema, collegare tutte le fondazioni virtuose, in maniera che lavorando insieme si possa fare con gli stessi mezzi molto di più.

Santo, se le chiedessi due parole che pensa siano in grado di riassumere tutto se stesso?
Sono due verbi: fare e dare. Fare significa costruire. La maison Versace, il cinema, la Fondazione. E la Fondazione è il dare. Noi siamo stati fortunati e ora desideriamo che la nostra fortuna torni a chi ha bisogno. Io ho attraversato tante vite, ma la vita che sto trascorrendo adesso e quella degli anni a venire sarà la più bella. Fare il cinema e avere una fondazione che porta il mio nome. Più di così, cosa si può volere dalla vita?

C’è una domanda su tutte che si è posto con insistenza in questi anni e alla quale non ha saputo rispondere?
Sull’assassino di Gianni. Nonostante Cunanan fosse entrato da mesi nel mirino dell’Fbi, fosse stato inserito nella lista dei fuggitivi più ricercati d’America, nonostante l’Fbi fosse a conoscenza del fatto che si trovava a Miami a partire dal 12 maggio di quell’anno, non venne fermato. E poi non saprò mai perché Cunanan scelse di uccidere Gianni Versace. Infine ci sono le domande sul destino.

Quali?
E se Gianni quella mattina non fosse uscito? E se una telefonata l’avesse trattenuto? E se non fosse stato da solo, ma con il compagno Antonio D’Amico? Sono tutti se, se, se.

A proposito di Antonio D’Amico. Il compagno storico di suo fratello è morto pochi giorni fa, dopo una lunga malattia. Non vi frequentavate più dopo l’omicidio di Gianni?
Alla morte di Gianni io e Antonio ci siamo allontanati. Lui e mio fratello erano inseparabili e, quella tragedia immane, che mi ha portato a chiudermi in me stesso, allo stesso modo mi ha spinto ad alzare un muro anche con lui. Poi ho cominciato a scrivere il mio libro e questo è stato il passo per riallacciare i rapporti con Antonio.

Eravate in contatto negli ultimi momenti?
Ci sentivamo spesso, sapevo che era malato. E la sua scomparsa oggi mi colpisce molto, perché lui rendeva felice Gianni e io non avrei potuto non volergli bene, visto che volevo davvero molto bene a Gianni. Sa, non esiste né in italiano né in altre lingue, un termine per definire chi perde un fratello o una sorella. Non esiste l’equivalente di “vedovo” o “orfano”. Eppure è un dolore immenso, che poco si conosce. Io lo conosco fin troppo bene.


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