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Economia

Ruspe a San Siro, Italia all’ultimo stadio

Stadi obsoleti, norme impossibili, palazzetti vecchi, scuole che negano le palestre: un Paese buro-centrico che non ama lo sport

di Giovanni Vasso -


L’Italia è all’ultimo stadio. Immaginate di essere un imprenditore. Immaginate di voler aprire un ristorante. Di quelli stellati, scicchissimi. Avete tutto pronto. Siete riusciti a ingaggiare lo chef più forte di tutti, attorno a lui una squadra rodata e affidabilissima. A fianco a voi, dopo lungo corteggiamento, s’è seduto il direttore di sala più corteggiato dell’hotellerie: ha occhio, visione e garbo. S’è portato i migliori sommelier, camerieri, attendenti, persino i suonatori di violini zigani o di posteggia. Ecco, ora immaginate che il Comune, ancorato a un’idea dello sport come prevenzione ed educazione pubblica, vi imponga lui i locali in cui esercitare la vostra attività.

Contro, si capisce, cospicuo canone. Perché debbono poterlo utilizzare tutti anche se, con un ritocco al fitto, l’esclusiva vi viene concessa facile. E, infine, immaginate che questi locali non siano altro che uno stand sperduto in zona industriale con sette panche di legno, stile sagra paesana, Oktober Fest rusticana. Volete fare qualche miglioria, a spese vostre. In mezzo a una selva (oscura) di burocrazia e col rischio che arrivi la Soprintendenza a bloccare tutto perché al tavolo 5, sì proprio quello scalcinato e senza una gamba, si sedette una volta il cognato di Nino Bixio. Ecco, ora non immaginate più: questa è la vita dei presidenti delle società di calcio italiane.

Il caso San Siro dura da una vita. La Scala del Calcio, la gran cassapanca dei ricordi, delle emozioni. Sarti-Burgnich-Facchetti e i tre olandesi Van Basten, Gullit e Rijkaard. Mazzola e Rivera, Berlusconi e Moratti. Le grandi sfide del calcio bello, quello di una volta. Il Comune di Milano, dopo tanto penare, ha finalmente deciso di venderlo. Sarà privato, sarà abbattuto. Forse ricostruito. Chissà. Ci sono voluti (solo) tre anni di discussione, negli uffici. Più una maratona di dodici ore in consiglio comunale. Si parla di nuovo stadio, tre progetti in ballo, lavori da far partire entro il 2027 per farsi trovare pronti, anno domini 2031, alla vigilia degli Europei di calcio che l’Italia ospiterà in coabitazione con la Turchia. Solo dopo l’assegnazione i vertici del nostro calcio, e dello sport nazionale, si sono resi conto del grande rischio che incombeva sul nostro Paese.

La Turchia, grazie a una marea di nuovi investimenti, ha già stadi di gran lunga migliori dei nostri. I più importanti e rappresentativi del nostro calcio, invece, sono fuori dalla grazia di Dio. E, soprattutto, fuori dai requisiti minimi richiesti dall’Uefa. A cominciare proprio da San Siro. Da Roma (dove si parla, ancora e ancora, di fare due stadi, uno per squadra) a Napoli, da Bari (ricordate, il San Nicola, il gioiello di Renzo Piano per Italia ’90?) a Palermo, tutti gli stadi hanno bisogno di rifarsi (quantomeno) il look. Secondo Eurispes, in tutta Italia, l’unico campo davvero a norma coi requisiti Uefa è lo Juventus Stadium, il primo “privato” della Serie A.

Secondo Ezio Simonelli, presidente della Lega, c’è pure lo stadio di Udine, un gioiellino costruito dalla famiglia Pozzo e quello di Bergamo, Gewiss Stadium, messo su dai Percassi. Per il resto, l’Italia è davvero all’ultimo stadio: “Al di là di Udine, Bergamo e Torino, il resto dei nostri stadi è in uno stato comatoso”, ha affermato Simonelli ad agosto scorso, snocciolando numeri e cifre: “Ceferin (il presidente Uefa ndr) ha criticato fortemente gli stadi italiani e gli dò ragione. Siamo arretrati rispetto a tutti gli altri paesi: negli ultimi 18 anni abbiano inaugurato solo sei stadi, di cui solo tre in Serie A. Nel resto d’Europa 226”.

Dopo la grande abboffata di Italia ’90 non s’è fatto più granché. E, diciamocelo sottovoce, da quegli anni ruggenti che precedettero le Notti Magiche ci siam portati dietro più di un’incompiuta. Specialmente in provincia. Là dove lo stadio è più importante ancora perché punto di riferimento sportivo e identitario di territori interi. Era la grande stagione in cui i campi sportivi si spostavano dal centro città, dove li aveva collocati l’urbanistica fascista, alle periferie industriali (o aspiranti tali). Oggi, gli stadi, non si sa più neanche dove farli. E quelli che ci sono, sono inadatti. Obsoleti, troppo lontani dall’azione, militarizzati da tornelli e controlli che manco in aeroporto.

Altro che famiglie allo stadio, in molti (troppi) impianti ci piove dentro. Anche in Serie A. Ecco, non immaginate più: come si può fare impresa, sognare di competere con gli altri (magari gli inglesi o gli spagnoli) se non si ha una “location” adatta neanche a giustificare gli (esosi) biglietti di ingresso chiesti a chi frequenta, ancora, spalti e tribune? È un problema grosso, la burocrazia. Che è giunta a ipotizzare soluzioni che, a ricordarle adesso, fanno piangere: bisogna rifare gli stadi, facciamoli coi fondi del Pnrr. Chissà perché l’Ue, scandalizzata, ha rigettato i progetti presentati a Firenze e Venezia…

Il calcio, al solito, è la punta dell’iceberg di un problema ben più profondo. Per gli altri sport, persino quelli in cui nessuno è più bravo di noi al mondo come la pallavolo, la situazione è addirittura peggiore. Il ct della nazionale di volley maschile Fefé De Giorgi, ha denunciato: “In Campania, le scuole non concedono le palestre alla pallavolo”. E, se è per questo, non lo fanno manco così volentieri col basket e le altre discipline. Al danno di ritrovarsi che molte società lamentano di ritrovarsi senza una sede per allenarsi, la beffa: molte di quelle palestre, specialmente al Sud, sono state costruite grazie ai fondi del Coni. Se mancano le palestre, figuratevi i palazzetti dello sport. Questa non è un’altra storia. È l’ennesima storia di un’Italia matrigna e di una burocrazia che non solo non funziona ma ostacola ciò che potrebbe farlo. Un’Italia all’ultimo stadio, appunto.


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