L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Attualità

Johatsu: le esistenze svanite nel Giappone

di Priscilla Rucco -


In Occidente la scomparsa diventa automaticamente notizia di cronaca. In Giappone, invece, può diventare una scelta. Si chiamano “johatsu”, letteralmente “le evaporazioni”. Migliaia di persone, ogni anno, si dissolvono in questa maniera dalla vita che conducevano. Non sono rapimenti e non fanno parte neanche dei casi appartenenti alle morti sospette. Sono decisioni consapevoli di diventare “nessuno”.   Nel Paese dove ogni devianza è un’onta, l’errore personale si paga con la scomparsa sociale. Una punizione? Non sempre. E per molti, evaporare è l’unica via d’uscita da una società che perdona tutto, tranne l’imperfezione.

Una fuga senza annunci e senza ritorno

Un divorzio, un fallimento economico, una bocciatura universitaria: motivi apparentemente banali, ma decisamente umani. Non per il Giappone dove possono diventare come dei marchi indelebili. Il johatsu non lascia biglietti. Non affida parole al passato, figuriamoci al futuro. Taglia i ponti, cambia città, spesso anche nome. E trova rifugio nelle “città-ombra”: aree urbane dimenticate, come Sanya a Tokyo o Kamagasaki a Osaka, dove l’unica regola è non fare domande ed essere ombre. Dietro questi casi non ci sono solo crisi personali, ma un modello sociale rigido, dove l’individuo ha valore solo se emerge. Dove il licenziamento è un’umiliazione pubblica e dove la depressione diviene un fallimento morale.

La cultura giapponese valorizza l’onore, l’autocontrollo, la maschera. Ma cosa succede a chi non riesce ad indossarla?

Tra quei vicoli vivono uomini e donne che un tempo avevano scrivanie, famiglie e tanti sogni. Oggi sopravvivono di lavoretti in nero, alloggiano in capsule di pochi metri quadrati e sono ai margini della società. Il fenomeno dei johatsu non è marginale. Ogni anno circa 80 mila persone vengono segnalate come scomparse in Giappone, secondo il Ministero dell’Interno. La maggior parte viene ritrovata, ma migliaia no. Léna Mauger, autrice del libro “The Vanished”, dopo aver indagato per anni il fenomeno, scrive: “I johatsu non sono morti. Sono vivi, ma hanno scelto di esistere fuori dai radar di una società che li ha già condannati”. Questa zona grigia tra vita e sparizione sfida il nostro concetto stesso di identità. In Occidente, scomparire è tragedia. In Giappone, può essere atto di dignità.

L’invisibilità diviene economia

Far perdere le proprie tracce, in Giappone, è così frequente che c’è chi ci costruisce sopra un’impresa. Le yonige-ya, “agenzie della fuga notturna”, offrono servizi professionali per “cancellare” le persone: trasloco segreto, cambio di identità, abbandono notturno. In cambio di qualche migliaio di euro, organizzano la tua sparizione senza chiedere perché. Un cliente tipo? Impiegati sotto stress, donne vittime di abusi, giovani disillusi. Persone comuni in cerca di una seconda possibilità… che non preveda spiegazioni.

Una nuova forma di esistenza: invisibile, ma autodeterminata

Oggi che ogni nostro passo è geolocalizzato, ogni pensiero condiviso, ogni fallimento esibito in pubblico, il johatsu compie un gesto rivoluzionario: sceglie l’invisibilità. Forse non solo per vigliaccheria, come in Giappone, e nemmeno per moda, ma per sopravvivenza. Perché per alcuni, continuare a vivere agli occhi degli altri è più doloroso che ricominciare da zero. E qualche volta, per ritrovarsi, bisogna prima sparire (a pagamento).


Torna alle notizie in home