Economia

La bolla è esplosa fine del denaro facile e le big tech sono le prime vittime

di Redazione -


di Edoardo Greblo & Luca Taddio

Forse esiste sempre un accordo che simboleggia la fine di un’epoca. Ci si potrebbe chiedere se l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk possa essere considerato il segnale di una svolta, e cioè il momento in cui l’ecosistema gestito dalle aziende digitali è entrato in una fase di recessione. Sebbene la disoccupazione complessiva sia ancora abbastanza limitata, quasi tutte le principali società ad alta intensità di tecnologia digitale – tra cui Amazon, Meta, Twitter – hanno annunciato licenziamenti a due cifre negli ultimi mesi. E a ciò si accompagna il fatto che il valore azionario di queste società è sensibilmente diminuito. Il fatto interessante è che la crisi sembra investire aziende che, pur avendo nel digitale un fondamentale tratto comune, restano sostanzialmente diverse. Twitter e Meta non distribuiscono merci e prodotti come Amazon. Eppure, la crisi non sembra fare distinzioni, e coinvolge società che coprono sfere di mercato molto diverse le une dalle altre. L’ondata di licenziamenti di massa che sta interessando le grandi aziende tecnologiche, oltre a ciò che sta accadendo con Twitter nelle ultime settimane e alla spettacolare implosione in corso delle criptovalute, suggerisce due interrogativi: perché la crisi non sembra conoscere distinzioni e perché sta esplodendo proprio adesso? Le risposte possono essere molte: la fine della pandemia, che sta spingendo i consumatori a fare acquisti nei negozi fisici e non solo on-line e a incontrarsi anche di persona e non a vivere soltanto nei social, la crisi geopolitica che ci sovrasta, l’incertezza del futuro. Ma perché, come si diceva, proprio adesso? La risposta potrebbe essere: perché il rialzo dei tassi di interesse deciso negli Stati Uniti dalla Fed per raffreddare l’inflazione sta modificando il quadro macroeconomico complessivo. Gli anni immediatamente successivi alla Grande Recessione scoppiata nel 2008 sono stati caratterizzati da un’economia debole o stagnante, da una bassa domanda aggregata e da bassi tassi di interesse. Ciò ha creato le condizioni ideali per un’epoca di denaro facile, che ha permesso agli investitori, alla ricerca di elevati tassi di rendimento, di finanziare le aziende ad alta intensità digitale accollandosi rischi che non avrebbero corso in circostanze economiche meno favorevoli ai loro interessi. Sono state queste circostanze a favorire gli investimenti a basso costo marginale, cioè al costo sostenuto dall’impresa per produrre un’unità aggiuntiva di un bene o per erogare un’unità maggiore di servizio. Basta guardare al recente passato: con l’aumento della penetrazione degli smartphone negli Stati Uniti e in tutto il mondo la rivoluzione delle app è decollata. Le aziende di social media e di tecnologia di consumo sono diventate tra le più ricche e in più rapida crescita al mondo. Hollywood è andata in streaming, i contenuti sono diventati digitali e l’economia dei servizi è stata intermediata dagli smartphone. Poi è arrivata l’impennata dell’inflazione post-pandemia. L’aumento dei tassi di interesse ha significato la fine del denaro facile. Poiché il costo del rischio è aumentato, i finanziamenti in capitale di rischio di aziende caratterizzate da un elevato potenziale di sviluppo sono diminuiti e le società hanno dovuto tagliare i costi, a cominciare da quelli per il personale. Facebook ha annunciato 11.000 licenziamenti, Amazon 10.000, Getir 4.480, Twitter 3.700, la metà dei suoi dipendenti. Ciò ha dirottato l’attenzione degli investitori dalla crescita ai profitti, e le valutazioni di Borsa delle società tecnologiche sono crollate. In alcuni casi la crisi è dovuta al fatto che gli inserzionisti stanno frenando la spesa in risposta al rallentamento della crescita globale ma, più in generale, è dovuta alla fine delle politiche monetarie facili perseguite dalle Banche centrali. I tassi di interesse particolarmente bassi, o addirittura negativi, e gli acquisti di obbligazioni attraverso programmi di quantitative easing facilitavano la circolazione di denaro speculativo pronto ad approfittare di ogni occasione ritenuta favorevole. Ora che il denaro costa di più e circola di meno la bolla è scoppiata. Non è la prima volta, come sappiamo, e forse non sarà l’ultima. Alcuni ne stanno approfittando. Le grandi aziende tecnologiche cinesi sembrano pronte a cogliere la palla al balzo e ad approfittare dell’occasione, avvicinando i licenziati di Big Tech e rendendosi disponibili ad assumerli. È anche in questo campo che si gioca la competizione della Cina nei confronti degli Stati Uniti, che sta provando a mettere in atto una delle più ampie redistribuzioni dei talenti e delle competenze avvenute nella storia dell’industria tecnologica. Sarebbe tuttavia sbagliato ricavare da quanto sta accadendo conclusioni troppo affrettate. La crisi dei colossi tecnologici non sembra tale da rimettere in discussione la trasformazione digitale, che riguarda i settori dell’economia non meno che della nostra esistenza quotidiana. Dalle banche ai negozi, dai pagamenti all’organizzazione del lavoro ci sono decine di migliaia di posizioni aperte immediatamente appetibili per chi ha dovuto preparare gli scatoloni dalle sedi di Big Tech. Con buona pace della Cina.


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