“La Corte Ue mette in discussione la sovranità degli Stati” Meloni condanna invasione di campo
È di nuovo scontro tra politica e giustizia. A innescarlo la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che sul protocollo Italia-Albania apre un nuovo fronte istituzionale destinato a segnare il dibattito delle prossime settimane. Non si tratta solo di un pronunciamento tecnico su una questione giuridica, ma di un passaggio che chiama in causa la sovranità politica degli Stati membri, e il ruolo stesso della magistratura nel delineare le politiche migratorie.
La questione, formalmente, riguarda la possibilità per uno Stato di designare un Paese terzo come “Paese di origine sicuro”, e dunque trattare in modo accelerato, e spesso con esito negativo, le domande di protezione internazionale da parte di cittadini di quel Paese.
Ma la vera posta in gioco è un’altra: chi decide le politiche migratorie? I governi democraticamente eletti o le corti nazionali e sovranazionali? Secondo la Corte Ue del Lussemburgo, l’atto legislativo con cui l’Italia ha incluso il Bangladesh tra i Paesi sicuri non sarebbe di per sé sufficiente, se non accompagnato dalla possibilità per i giudici di sindacare, caso per caso, la validità di tale designazione, compresa la verifica delle fonti informative alla base della stessa.
Detto altrimenti: ogni giudice nazionale, in qualunque parte del continente, potrebbe rimettere in discussione una scelta compiuta da un governo sulla base di un atto parlamentare. Non più eccezioni fondate su condizioni personali del richiedente, ma un sindacato esteso a tutta la legittimità della norma. Una forzatura che Palazzo Chigi, con toni fermi, ha subito respinto. “Ancora una volta – è il pensiero della premier Giorgia Meloni -, la giurisdizione rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche”. Il messaggio è chiaro: non si tratta di ostilità verso il diritto, ma di un richiamo alla distinzione dei poteri.
È al governo, eletto dai cittadini, che spettano le decisioni fondamentali su chi e come può entrare in un Paese, non a singoli magistrati. La replica della Corte sembra dimenticare che la designazione dei Paesi sicuri in Italia è frutto di un atto parlamentare varato nell’ottobre 2024, dopo approfondite istruttorie da parte dei ministeri competenti. Un processo trasparente e sottoposto a controllo democratico, non certo un’imposizione arbitraria. D’altronde, in quale altra materia di interesse nazionale si chiederebbe a un giudice di sindacare le fonti alla base di un atto legislativo?
Non si tratta di negare i diritti dei richiedenti asilo, ma di difendere un principio chiave dello Stato di diritto: le scelte politiche si fanno nei parlamenti, non nelle aule di giustizia. Non a caso, Palazzo Chigi sottolinea come questa sentenza arrivi a pochi mesi dall’entrata in vigore del nuovo Patto europeo su immigrazione e asilo che prevede una cornice comune più rigida per la gestione dei flussi migratori. La sentenza rischia di svuotare di significato non solo la normativa italiana, ma lo stesso futuro Patto europeo. E rischia di indebolire la capacità degli Stati membri di contrastare l’immigrazione illegale.
È un’invasione di campo che dovrebbe preoccupare non solo i governi di centrodestra, ma ogni forza politica attenta alla tenuta delle istituzioni democratiche. Matteo Salvini parla di “ennesimo schiaffo alla sovranità nazionale”. Maurizio Lupi denuncia “una preoccupante invasione di campo”. E Fabio Rampelli affonda: “Tutti hanno diritti, tranne gli Stati”. Per contro Elly Schlein, segretaria Pd, attacca la premier che deve chiedere scusa agli italiani, perché i numeri relativi ai costi della sua illegale operazione Albania sono un insulto anche a quei milioni di persone che oggi si trovano in difficoltà. Non solo viola i diritti fondamentali dei migranti, tanto che quelle prigioni sono rimaste vuote”. Dietro questi toni c’è una preoccupazione autentica: quella che le scelte su temi centrali come l’immigrazione sfuggano sempre più dal controllo democratico per finire in una zona grigia tra interpretazioni giuridiche, norme europee stratificate e diritti declinati all’infinito.
Chi dice che la sentenza è una “Caporetto per Meloni” dimentica che l’Italia ha agito nel pieno rispetto della cornice europea vigente. Il problema è semmai che quella cornice, con norme datate e ambigue, consente derive giurisprudenziali sempre più radicali. E chi governa ha il dovere di denunciarle.
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