Attualità

La crisi della democrazia è il deficit di rappresentanza

di Redazione -

SEBASTIANO MAFFETTONE DIRETTORE ETHOS LUISS BUSINESS SCHOOL


di SEBASTIANO MAFFETTONE

 

Chi, come il sottoscritto, è nato dopo la Seconda guerra mondiale è cresciuto senza troppi dubbi sul primato della democrazia. Oggi, però, la democrazia è in crisi dappertutto e in maniere diverse. Questa crisi è resa evidente dalla presenza sullo scenario globale di autocrazie e democrazie illiberali come Cina, Russia e Turchia, ed è complicata poi dalla presenza ingombrante di una risposta politica di stampo “populista”.

Prima tra le cause di questa crisi è probabilmente quella che mette in relazione democrazia e globalizzazione. Come si presenta il sistema democratico al cospetto di radicali cambiamenti che riguardano il potere statale in un mondo globalizzato? Sempre più organismi internazionali e sovranazionali, spesso di natura tecnica o economica, determinano esiti indipendenti dallo stato e importanti nella vita delle persone (v. C. Crouch, Post-democrazia e Il potere dei giganti, dove la crisi della democrazia è collegata proprio al crescente e – spesso – sovrastante potere delle lobby economiche e delle MNCs, ONG e gruppi di influenza).

La questione globalizzazione è rilevante non solo per le sue conseguenze politiche ma anche per quelle economiche. Dal punto di vista economico, la globalizzazione complessivamente concepita si traduce in un guadagno collettivo nell’ottica dell’umanità (basta pensare ai progressi economici di Cina e India per capirlo). Ma ci sono anche vittime economiche della globalizzazione (per cui v. Global Inequality di B. Milanovic). Per cui, la voce dei perdenti economici si fa sentire politicamente dando luogo a risultati elettorali prima impensabili (come Trump e Brexit). Inoltre, di certo lo stato moderno – come noi lo conosciamo – è nato in condizioni di sostanziale uniformità etnica. Le attuali migrazioni di massa spostano sostanzialmente gli equilibri etnici di molti paesi, causando anche qui terremoti elettorali dovuti alle difficoltà di coesistenza interculturale.

Qualcosa di simile può dirsi per l’impatto dei nuovi media sui sistemi politici. La “videocrazia” – come l’ha chiamata Giovanni Sartori – aveva già mutato le forme della politica e i modi della leadership, ma l’avvento del web e in genere la digitalizzazione del sociale lo stanno facendo e lo faranno ancora di più. È facile oggi ritenere che il web abbia cambiato il modo di aggregare le preferenze e in generale il sistema della comunicazione pubblica. La comunicazione pubblica è diventata istantanea, più orizzontale e meno verticale, se così si può dire, pensando al fatto che le notizie e le opinioni arrivano sempre più attraverso comunicazioni da persona a persona senza la presenza di intermediari politici e professionali. Quanto qualcosa del genere sia pervasivo e se le conseguenze vadano in direzione di maggiore democraticità o piuttosto verso un rischio di nuovi totalitarismi della rete è difficile dire. Quello che è certo è che fenomeni del genere mettono in crisi l’idea stessa di sovranità democratica.

Come si è detto, la democrazia appare in enorme difficoltà. Una crisi di democrazia implica un deficit di rappresentanza. La ragione principale dietro il deficit di rappresentanza è costituita di solito da una mancanza di legittimazione: il popolo (l’insieme dei rappresentati) non crede più ai suoi rappresentanti. Un recupero di legittimazione da parte di questi ultimi passa necessariamente per un maggiore ascolto diretto del popolo sovrano in modi e forme da appurare progressivamente. È impossibile non collegare una crisi del genere alla risposta più rilevante: il populismo. Abbastanza ovviamente, il populismo rinforza la partecipazione democratica ma ne indebolisce le premesse liberali.

Si può dire che il populismo sia da un punto di vista positivo una strategia per integrare il popolo (spesso ritenuto ingiustamente escluso) nel sistema politico e da un punto di vista negativo la premessa usuale per realizzare quella che abbiamo chiamato democrazia illiberale, limitando diritti fondamentali in nome della volontà popolare. Tra coloro che hanno privilegiato questa seconda opzione, lo studioso francese Pierre Rosanvallon ha sostenuto che il populismo è in sostanza una perversione della democrazia, mentre chi privilegia la prima opzione, come Ernesto Laclau, lo vede come una democratizzazione della democrazia. Storicamente, il populismo è un approccio alla politica che caratterizzava quello che una volta si chiamava terzo mondo. Mentre negli Stati Uniti e in Europa occidentale – si diceva – il processo di sviluppo economico veniva accompagnato da una parallela crescita della classe media, che assicurava livelli decenti di liberal-democrazia, in molti paesi in via di sviluppo l’arricchimento di alcuni non veniva accompagnato da una crescita sociale collettiva. Un fenomeno del genere suscitava protesta da parte degli esclusi, attacchi alle élites (considerate responsabili), ricorso a un leader forte.

In un certo senso, questa è una storia molto sudamericana – i leader che li incarnano vanno da Peron a Chavez e Maduro. Ma il populismo contemporaneo non è quello di Peron, e spesso non ha nulla a che fare con i processi di modernizzazione. Quando teniamo presente Trump, Brexit, 5 Stelle in Italia, i partiti di estrema destra in Austria, Germania, Svezia, Francia e Italia parliamo di paesi sicuramente nel primo gruppo a livello planetario. E a questo punto la teoria della modernizzazione, quella degli anni 1950-60, come base della spiegazione del populismo sembra non potere funzionare più.

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