LA FILIPPICA – I tanti (troppi) 100 e 100 e lode che si prendono alla maturità: le differenze regionali
Ogni anno, alla fine di giugno, i riflettori si accendono sugli esami di maturità. Tra statistiche, classifiche e orgoglio personale, l’attenzione dei media e delle famiglie si concentra su un numero: il voto finale. In particolare, i “100” e i “100 e lode” sono da sempre percepiti come la consacrazione di un percorso di studi di eccellenza. Eppure, osservando i dati ufficiali più recenti forniti dal Ministero dell’Istruzione per il 2024, emerge con chiarezza che il voto di maturità non è un indicatore oggettivo e omogeneo del valore di uno studente, ma riflette anche notevoli differenze territoriali che in alcuni casi pongono questioni di equità e di opportunità.
Secondo i dati diffusi, nel 2024 circa il 10% degli studenti italiani ha conseguito il voto di 100, mentre un ulteriore 10% ha ottenuto anche la lode. È un incremento significativo rispetto al periodo pre-pandemico, quando la somma delle due percentuali raramente superava il 12%. A questi risultati si aggiunge un’ampia fascia di diplomati con voti compresi tra 91 e 99, che rappresentano circa il 12% dei maturandi. Tuttavia, quando si scompongono i numeri su base regionale, si osservano divari che sfidano la logica di un sistema di valutazione che dovrebbe essere il più possibile uniforme.
Le regioni del Sud e le isole registrano costantemente percentuali più elevate di voti massimi. In Campania, Puglia e Calabria, gli studenti che ottengono 100 e lode superano il 5%, mentre quelli con il solo 100 oscillano fra il 10% e il 15%. All’estremo opposto, in regioni come la Lombardia, il Piemonte e il Veneto, i 100 e lode si fermano mediamente sotto il 2%, e i 100 restano contenuti tra il 5% e il 7%.
Questa situazione ha suscitato l’attenzione di studiosi e osservatori del sistema educativo, come Lorenzo Ruffino, che hanno più volte messo in evidenza un dato cruciale: gli stessi studenti che conseguono voti eccellenti nelle regioni del Sud ottengono, in media, risultati più bassi nelle prove standardizzate nazionali (INVALSI), mentre i loro coetanei del Nord ottengono punteggi INVALSI più alti ma una minore incidenza di 100 e lode. È evidente che la valutazione finale alla maturità dipende da una molteplicità di fattori: il contesto scolastico locale, i criteri di correzione talvolta più “generosi”, la pressione sociale e le dinamiche interne alle commissioni, nonché i percorsi individuali degli studenti.
Per queste ragioni, il voto di maturità dovrebbe essere considerato, più che un giudizio assoluto, un indicatore relativo e contestualizzato. Eppure, è proprio questa distanza fra il significato “relativo” del voto e il suo utilizzo “assoluto” che pone il problema più serio. Quando infatti i voti finali entrano nei punteggi di concorsi pubblici, nelle graduatorie universitarie o nei criteri di selezione per l’accesso a determinate professioni, diventano un vantaggio competitivo reale che incide concretamente sulla vita di migliaia di giovani.
Chi ottiene un 100 e lode in Campania o in Calabria, pur in un contesto dove mediamente le prove standardizzate mostrano livelli inferiori di competenze rispetto al Nord, si ritrova a competere con studenti lombardi o veneti che, a parità di talento o forse anche con risultati oggettivi migliori nelle prove nazionali, hanno ricevuto voti inferiori.
Questo squilibrio finisce per creare una concorrenza sleale, in cui i giovani del Sud risultano sistematicamente avvantaggiati da un sistema di valutazione meno rigoroso, a discapito dei coetanei del Nord. E non si tratta solo di un tema di giustizia individuale: nel momento in cui il voto di maturità incide sui punteggi per l’assegnazione di borse di studio, graduatorie universitarie e punteggi di concorso, si crea un meccanismo di disparità sociale strutturale, che rischia di alimentare un nuovo tipo di discriminazione territoriale inversa.
Una forma di razzismo di sistema, che non tutela il merito reale ma incentiva la corsa a gonfiare le valutazioni locali per garantire ai propri giovani un vantaggio competitivo. Se si vuole che la maturità mantenga un senso di equità e che il voto finale sia credibile non solo come strumento statistico ma anche come indicatore di merito, serve un controllo più rigoroso dell’omogeneità dei criteri di valutazione e un riequilibrio dei punteggi nei concorsi, riconoscendo il valore delle prove standardizzate nazionali come contrappeso. In definitiva, un 100 non è uguale dappertutto. E se il voto di maturità diventa moneta di scambio per il futuro di intere generazioni, è dovere delle istituzioni vigilare affinché non diventi anche la scorciatoia più subdola per creare nuove ingiustizie sociali.
Torna alle notizie in home