La furia della neve travolge e uccide 5 italiani in Nepal
Una strage di alpinisti italiani. Cinque vittime in Nepal, in due distinte spedizioni a pochi chilometri di distanza, sepolti da un muro di neve, sceso per giorni come un urlo bianco, che ha inghiottito le tende e i sogni dei nostri connazionali. Due tragedie parallele, a pochi giorni e poche valli di distanza, hanno segnato le pendici himalayane, trasformando due spedizioni in un incubo senza via di scampo.
Le vittime
Sul monte Panbari Himal, 6.887 metri, sono morti il vicentino Stefano Farronato, 50 anni, tecnico forestale di Cassola nel Bassanese, e il milanese Alessandro Caputo, 28 anni, maestro di sci a St. Moritz. Erano partiti assieme a Valter Perlino, 64 anni, veterinario di Pinerolo, che oggi parla da sopravvissuto. “Li abbiamo trovati nella tenda, tre giorni dopo che li avevo lasciati per scendere al campo base – racconta Perlino – dormivano, sepolti sotto due metri e mezzo di neve compatta. È successo nella notte tra giovedì e venerdì. Mentre dormivano, è tutto assurdo”. Parole rotte dal dolore e dalla consapevolezza di un destino scampato solo per caso: Perlino era stato costretto a scendere di quota per una trombosi venosa a un piede. “Sono stato fortunato, perché se non avessi avuto quel problema sarei morto anche io”. Il loro ultimo messaggio, pochi giorni prima del disastro, suonava come un inno alla montagna: “Ogni metro guadagnato è frutto di forza, esperienza e rispetto”. Poi la tempesta. “Dedicherò l’ascesa a mio padre Bertillo che è morto pochi mesi fa – raccontava prima di partire Stefano -, sarà un’esperienza unica che mi darà tanta forza interiore”.
La dinamica
Secondo le ricostruzioni, il maltempo ha colpito con due giorni di anticipo rispetto alle previsioni. “Ci aspettavamo la perturbazione dopo il 29, invece ha iniziato a nevicare il 27 e non ha smesso per sei giorni”, spiega Perlino. “Al campo base eravamo intrappolati, la neve continuava a scendere senza tregua. Quando il tempo è migliorato, siamo tornati su con l’elicottero e il team di soccorso nepalese. Li abbiamo trovati, ma non c’era più nulla da fare”. A guidare le operazioni, insieme ai nepalesi, anche esperti italiani come il pilota Manuel Folini e l’alpinista Michele Cucchi. Le condizioni erano proibitive, ma la montagna ha restituito i corpi dei due alpinisti. “Erano alpinisti esperti, con alle spalle altre spedizioni – insiste Perlino -, purtroppo la neve ci ha sorpresi”.
Altre vittime italiane
Poche ore dopo la notizia del Panbari, un’altra tragedia si è abbattuta su un’altra montagna, lo Yalung Ri, dove una valanga ha ucciso sette alpinisti, tra cui tre italiani: Paolo Cocco, fotografo e viaggiatore abruzzese; Marco Di Marcello, biologo di Teramo che viveva in Canada; e Markus Kirchler, originario del Tirolo. Con loro hanno perso la vita un tedesco, un francese e due guide nepalesi. Altri quattro sono rimasti feriti, due francesi e due nepalesi, trasportati d’urgenza a Kathmandu. Il sindaco di Fara San Martino (Chieti), Antonio Tavani, ha confermato la morte di Cocco: “Era un ragazzo generoso, un visionario, ma con i piedi per terra. Ha sempre cercato le sfide più affascinanti, questa volta è stato il destino a tradirlo”. La Farnesina ha seguito ora per ora le operazioni di soccorso, in costante contatto con il consolato di Calcutta e con le autorità nepalesi.
L’opinione dell’esperto
Secondo l’alpinista e giornalista Claudio Tessarolo, amico di Farronato e conoscitore delle spedizioni himalayane per avervi più volte partecipato, “questa è la conseguenza estrema del cambiamento climatico. La coda del monsone – spiega – ha scatenato la violenta nevicata che ha travolto i campi. Un tempo, in questa stagione, le finestre di bel tempo erano più stabili. Oggi, con l’alterazione dei cicli atmosferici, le perturbazioni arrivano in anticipo o con una forza imprevedibile. La montagna reagisce con furia”. Il Panbari, montagna remota e poco frequentata, richiede giorni di cammino solo per raggiungere il campo base. È una delle cime meno esplorate del Nepal, un gigante nascosto tra le grandi vette del Manaslu e dell’Annapurna. Lo Yalung Ri, invece, è più accessibile, ma anch’esso esposto alle correnti monsoniche che quest’anno hanno investito la catena himalayana con un’intensità record.
Il monsone non ha più regole stagionali
Gli esperti del meteo himalayano parlano ormai di una “nuova normalità”: il monsone non segue più regole stagionali. I cicloni che si formano nel Golfo del Bengala, come il Montha, possono spingersi fino al Tibet, portando con sé nevicate torrenziali e venti improvvisi. Le conseguenze si vedono sui ghiacciai, che si ritirano, e sulle pareti, che diventano instabili. “L’alpinismo d’alta quota non è più solo una sfida fisica – osserva Tessarolo – ma anche un calcolo contro il caos del clima”. Valter Perlino oggi è ancora in Nepal, con il compito più duro, riportare a casa i corpi dei suoi compagni: “Li ho cercati fino all’ultimo. Ho dormito poco, ma non potevo fermarmi. Erano miei amici, fratelli di montagna”.
La tragedia
La tragedia del Panbari e dello Yalung Ri segna una delle pagine più nere dell’alpinismo italiano degli ultimi anni. Cinque vite spezzate tra ghiaccio e silenzio, in un Himalaya sempre più imprevedibile, dove il cielo cambia umore in poche ore e la montagna non perdona. Sotto quei metri di neve, restano tende, corde, e il coraggio di chi credeva che anche l’impossibile potesse ancora avere un senso.
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