La guerra finale di Netanyahu e il piano a ostacoli di un capo debole
Offensiva sì, offensiva no? Ieri il premier israeliano Bibi Netanyahu ha annunciato che l’operazione di terra a Gaza è stata rinviata senza però dire a quando. “Ci stiamo preparando”, ha assicurato. Come è noto, però, il presidente Usa Joe Biden da giorni sta tenendo a freno Tel Aviv, sconsigliando fortemente di avviare l’operazione con tank e fanteria (anche perché con Gaza rasa al suolo, le macerie sono perfette per Hamas per imboscate e attacchi in stile guerriglia urbana).
Il punto tuttavia è un altro. Posto che prima o poi la guerra a Gaza comincerà perché Israele vuole sconfiggere Hamas una volta per tutte, Biden ha minacciato di “colpire l’Iran nel caso di altri attacchi contro le basi statunitensi in Siria e Iraq”. “Avvertiamo l’Ayatollah iraniano che se continueranno ad attaccare le truppe statunitensi in Medio Oriente, noi risponderemo. E quindi deve tenersi pronto”, ha detto il presidente Usa. In tutta risposta, ieri il ministro degli Esteri iraniano è volato a New York per “colloqui internazionali” sulla crisi in Medio Oriente. L’auspicio è quindi che l’escalation venga disinnescata con la diplomazia, perché un attacco Usa contro Teheran o viceversa causerebbe lo scoppio della terza guerra mondiale.
In questo scenario pericolosamente instabile, dunque, l’obiettivo comune di tutti dovrebbe essere quello di fare di tutto per evitare che il conflitto tra Israele e Hamas (e presto probabilmente tra Israele e Hezbollah in Libano) non si allarghi. I Paesi musulmani della regione sono pronti a intervenire in difesa dei palestinesi. Così come ad attaccare Israele se dovesse compiere ulteriori massacri di civili inermi con l’operazione di terra.
Cerchiamo dunque di capire perché, pur consapevole del fatto che per poter tornare a parlare di negoziati prima va sconfitta Hamas, Washington sta tenendo a freno Israele. Mentre anche in Europa c’è chi come il presidente francese Emmanuel Macron chiede il ritorno della coalizione anti-Isis, Biden chiede a Tel Aviv di prendere tempo. Forse allora il problema non è l’offensiva contro Hamas ma chi la guiderà. Intanto gli Usa hanno inviato sul posto James Glynn, il super generale che ha guidato la campagna per fermare l’Isis. Il suo compito sarà quindi quello di consigliare Tel Aviv su come affrontare i combattimenti urbani. E se il Pentagono fa sapere che Glynn una volta messa a disposizione tutta la sua esperienza, non guiderà l’operazione, il problema appare politico, più che militare. Ossia è Netanyahu che non va più bene, come premier e quindi come leader politico dell’offensiva.
Ecco perché Netanyahu deve farsi da parte
A Tel Aviv serve un cambio di passo, serve che Bibi, ritenuto da molti il responsabile dell’attacco di Hamas per le sue scellerate politiche che hanno favorito i coloni contro i palestinesi, si faccia da parte per dare subito un nuovo volto alla guerra di Israele.
In questo quadro, al contempo dovranno mettersi in azione le diplomazie, perché ormai è evidente che Tel Aviv non può continuare a fare strage di civili inermi per colpire Hamas. Per tornare a parlare di due popoli e due Stati – come chiedono il Papa, Russia e Cina – bisogna prima che l’offensiva contro Hamas non sembri a tutto il mondo una vendetta indiscriminata contro i palestinesi. L’obiettivo militare insomma non deve sovrapporsi a quello politico di preservare la democrazia israeliana senza che scoppi una guerra regionale per via dei crimini di Tel Aviv denunciati anche dal presidente turco Erdogan. Il Sultano infatti, se da un lato si propone come mediatore per i negoziati dall’altro ha riferito a Papa Francesco che Israele a Gaza sta compiendo massacri sui civili inermi.
In tal senso è fondamentale come si muoveranno gli Usa e l’Occidente per far sì che le condizioni per un’offensiva contro Hamas saranno tali da scongiurare un allargamento del conflitto.
La via della pace tra Israele e i suoi nemici islamici passa per la caduta di Netanyahu, insomma.
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