La leggenda dello scrittore col megafono
C’era una volta uno scrittore che denunciava la criminalità organizzata con nomi e cognomi. Parlava chiaro, metteva a nudo poteri che tutti fingevano di non vedere. Ha ricevuto minacce vere, mafiose, e oggi una sentenza lo certifica: non erano paranoie, erano colpi bassi. E lo Stato, per una volta, gli dà ragione.
Ma da allora qualcosa è cambiato. Quello scrittore, che combatteva la violenza con la parola, ha cominciato a usare le parole con lo stesso tono di chi un tempo denunciava. Un tono sempre più carico, sempre più duro. Da testimone scomodo è diventato accusatore fisso, giudice e giuria.
Non è più solo uno che racconta. È uno che decide chi è giusto e chi è sbagliato. Sempre e solo lui. E guai a non allinearsi. Basta una sfumatura fuori posto e sei bollato: complice, venduto, fascista.
Nel tempo è diventato una specie di tuttologo incattivito, sempre pronto a infilarsi in ogni discussione, (politica, sociale, morale) con sentenze che non lasciano spazio a risposte. E chi prova a discuterne, si trova respinto. Non nel merito, ma nel tono. Sembra quasi che la rabbia iniziale, quella giusta e necessaria, gli sia rimasta incollata addosso. E adesso è come se fosse rimasto incastrato nella fiction tratta dal suo libro e non smette mai di puntare il dito. Anche contro chi, magari, non è nemico, ma solo diverso. Peccato. Perché quel talento che una volta apriva gli occhi, ora spesso li chiude. Troppo rumore, troppo scontro. La voce di chi voleva rompere il silenzio è diventata un megafono assordante.
Forse basterebbe poco: meno crociate, più domande. Perché anche le storie più giuste, se recitate troppo, iniziano a sembrare finte. E la verità, (sempre che lo sia) non ha bisogno di stare sempre sotto i riflettori.
Torna alle notizie in home