Economia

La masterclass dell’ipocrisia nella Davos dimezzata

di Alessio Gallicola -

WORLD ECONOMIC FORUM 2022 WEF DAVOS


Cooperazione. L’unione del lavoro di più persone che osservano un metodo per raggiungere un obiettivo condiviso. Nobile. Se poi questo obiettivo è battere la frammentazione del mondo attuale e affrontare la moltitudine di crisi utilizzando il dialogo come arma vincente, allora la cooperazione risulta ancora più nobile. Messo così, il manifesto del World Economic Forum, che parte domani tra le montagne di Davos, Cantone dei Grigioni, Svizzera, è un’ode alla rinnovata corrispondenza di affetti tra i leader mondiali. Ma senza neanche scavare troppo sotto il primo strato della comunicazione, ci si accorge che la realtà è abbastanza lontana. La Davos che torna in presenza dopo tre anni di astinenza da Covid rischia di assomigliare di più alla definizione che ne hanno dato gli attivisti di Greenpeace: “La masterclass in ipocrisia”. Hanno calcolato, infatti, che gli oltre mille jet privati che trasportano Capi di Stato e top manager al Forum sono in grado di inquinare come 350.000 automobili che percorrono 750 chilometri al giorno per una settimana. Non una grande equazione per chi annuncia in pompa magna di voler affrontare le grandi emergenze globali, “a iniziare dalla necessità di una transizione energetica efficace che richiede un attento bilanciamento di tutte e tre le parti del triangolo energetico: sviluppo economico e crescita, sicurezza e accesso all’energia e sostenibilità ambientale”.
Ma al di là del richiamo alla coerenza ambientalista, che potrebbe anche apparire un filo demagogico, resta la domanda di fondo sulla reale efficacia di un vertice senza Biden, Xi e Putin, che in termini di impatto sulle vicende socio-economiche del pianeta hanno un certo impatto. Senza dimenticare i leader di Regno Unito, Francia e Italia, vale a dire metà dell’Europa che conta.
Quanto alla sostanza degli argomenti al centro del dibattito, il clou è senz’altro la domanda globale di prodotti industriali, destinata a crescere in modo significativo entro il 2050, che porta con sé la necessità della decarbonizzazione delle industrie per la fondamentale – a dar retta ai documenti prodotti dalle varie istituzioni mondiali – transizione energetica globale. Il tema é: cinque settori (cemento e calcestruzzo, ferro e acciaio, petrolio e gas, prodotti chimici e carbone) sono responsabili dell’80% delle emissioni industriali; come fare per ridurre l’inquinamento ed evitare che il pianeta collassi definitivamente?
L’assente Biden una risposta ce l’ha ed ha già messo in atto – come da tempo andiamo raccontando – un piano, l’Inflation Reduction Act, che prevede circa 370 miliardi di dollari sotto forma di sussidi alle imprese che decidano di produrre energia rinnovabile sul suolo statunitense. Un modo neanche troppo elegante per richiamare a sé le più grandi imprese energetiche europee, che potrebbero decidere di lasciare il vecchio continente attratti dalle sirene d’Oltreoceano. E l’Europa, sempre in affanno, prova a rispondere con il suo CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), cioè la tassa sul carbonio. In pratica, come spiegano mirabilmente Greblo e Taddio qui in alto, è un’arma di difesa che Von der Leyen e soci mettono in campo per provare a convincere le imprese a non delocalizzare in Paesi poco interessati, come gli Stati Uniti, alle vicende climatiche.
Una sfida in atto che lascia intravedere pochi spiragli di “cooperazione” sui temi dello sviluppo. E forse è proprio per questo che buona parte dei leader mondiali abbiano deciso di disertare l’appuntamento. Per poter dire un giorno di non aver partecipato alla “masterclass dell’ipocrisia”.

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