La parabola di Boraso tra politica, tangenti e reputazione perduta
C’è un’immagine che sembra definire per sempre Renato Boraso, che chiede di patteggiare per avere fatto mercimonio della funzione pubblica: quella della giacca catarifrangente, l’elmetto giallo e il braccio levato verso l’alto, mentre supervisiona un cantiere pubblico. Era l’icona dell’assessore iperattivo della Serenissima, dell’uomo di strada, dell’amministratore che stava sempre “sul pezzo”.
Oggi, quella stessa immagine campeggia sui giornali e nei tiggì accanto alle parole “patteggiamento”, “corruzione”, “vendita della casa per pagare 300 mila euro allo Stato”.
E tutto cambia. Il 16 luglio del 2024, l’assessore alla Mobilità del Comune di Venezia finiva in manette con l’accusa di corruzione e altri reati legati alla commistione tra interessi pubblici e affari privati nel campo immobiliare. Da allora, il tempo si è fatto processo, difesa, calcolo e contrattazione. Non più con gli avversari politici, ma con i Pm Terzo e Baccaglini. Adesso Boraso vuole patteggiare per uscire di scena. L’accordo è definito: una pena di 3 anni e 10 mesi, ma soprattutto una cifra da versare allo Stato – 300 mila euro – per chiudere i conti con la giustizia e provare a rientrare nella vita civile. Per questo l’ex assessore ha firmato un preliminare per la vendita di una proprietà in montagna: non un investimento di fuga, ma una retromarcia obbligata per pagare il conto. La scena è quasi teatrale. Non ci sono catene, non ci sono carceri visibili, ma c’è un uomo che per difendersi deve smontare pezzo dopo pezzo il suo patrimonio, sacrificare il suo buon nome e affrontare l’opinione pubblica.
Il crimine non paga: e la lezione, questa volta, riguarda uno di quei “colletti bianchi” che spesso pensano di farla franca. Non si tratta solo di denaro. In questo caso, la cifra ha un valore simbolico. Quei 300 mila euro, che secondo l’inchiesta rappresenterebbero l’equivalente di favori, vantaggi o tangenti mascherate, diventano oggi il prezzo per riottenere una forma di libertà: non la libertà fisica, ma quella morale, quella sociale. Ma è un prezzo che non compra il perdono.
Il percorso che ha portato Boraso a questo punto è indicativo di un certo modo di fare politica: disinvolto, reticolare, piegato all’interesse. Un sistema in cui l’amministratore pubblico si trasforma in facilitatore per operazioni private, scivolando dal ruolo istituzionale a quello, più redditizio, di mediatore d’affari. Nella vicenda di Boraso c’è, come si legge nel capo d’imputazione, un’area logistica, una variante urbanistica, una spinta politica. Ma soprattutto c’è il sospetto che il bene pubblico sia stato usato come merce di scambio.
E qui si apre una ferita più profonda. Perché se è vero che Boraso potrebbe presto patteggiare, è altrettanto vero che la sua figura è già stata giudicata dall’opinione pubblica. La reputazione, in politica, è tutto. E quando la perdi, non c’è risarcimento che tenga. L’ex governatore Giancarlo Galan, anch’egli travolto dallo scandalo del Mose, ne sa qualcosa. Anche lui ha dovuto vendere, pagare, contrattare. Boraso non era un outsider. Era un uomo potente dentro al sistema metropolitano, nel cuore della macchina veneziana, tra i più attivi nella giunta Brugnaro. Aveva la fiducia del sindaco, una rete di relazioni, una visibilità continua. Anche per questo, la sua caduta pesa di più. E anche per questo la città, che pure conosce bene i suoi chiaroscuri, fatica a scrollarsi di dosso l’impressione di essere stata tradita. E poi c’è un altro aspetto, più umano.

Nelle carte dell’inchiesta si parla anche del sequestro di una parte del denaro. Si dice che Boraso avrebbe tenuto un “ricavo” occultato: attorno ai 400 mila euro. Cifra contestata dalla difesa. Ma per i Pm, che hanno ricevuto le confessioni dell’imputato, il denaro, in parte, sarebbe ora tornato utile a coprire la cifra concordata per il patteggiamento. Ma cosa resta a un uomo che deve difendersi vendendo la casa e restituendo il bottino? La vera sentenza è già stata emessa: da chi ha creduto in lui, dai colleghi di giunta, dai cittadini che associavano il suo nome alla gestione della mobilità urbana. La vicenda di Boraso si intreccia con l’indagine Palude, che ha coinvolto 34 persone e i vertici comunali.
Tra gli indagati anche il nome più pesante: Luigi Brugnaro, sindaco in carica, accusato di concorso in corruzione col magnate di origine cinese Ching Chiat Kwong, in relazione al tentativo di compravendita dell’area dei Pili e di palazzo Papadopoli. I due respingono con forza i sospetti dell’accusa. Un’operazione immobiliare sulla carta da 150 milioni di euro. Insieme a Brugnaro sono indagati i suoi collaboratori più fidati: Morris Ceron, il capo di gabinetto, e Derek Donadini, figura centrale nella gestione operativa del Comune.
Il quadro che emerge è quello di un sistema poroso, dove i confini tra funzione pubblica e interesse privato diventano fluttuanti, mobili, manipolabili. A rendere più solida l’impalcatura dell’accusa, ci sono i patteggiamenti già concordati da parte di alcuni imprenditori considerati i presunti corruttori: Daniele Brichese (che ha chiesto la stessa pena di Boraso, 3 anni e 10 mesi), Fabrizio Ormenese (2 anni e 9 mesi), Francesco Gilson (2 anni e 6 mesi). Una serie di conferme indirette che rafforzano l’ipotesi di una rete di favori e di scambi occulti. Il caso Boraso è un monito. Perché non importa quanto sei potente, visibile o appoggiato: se tradisci il patto con i cittadini, pagherai.
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