Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – La politica che arretra di fronte alla burocrazia

di Michele Gelardi -


In Italia c’è un eccesso di indirizzatori-controllori, al quale si accompagna un deficit di decisori-responsabili. Tutti gli organi politici al vertice della piramide gerarchica delle amministrazioni pubbliche appartengono alla prima categoria, mentre i burocrati, politicamente irresponsabili, adottano e sottoscrivono i provvedimenti amministrativi. Più precisamente, i soggetti ufficialmente responsabili, in qualità di organi politici, non decidono, ma indirizzano; i soggetti indirizzati (dirigenti ufficialmente irresponsabili), decidono sulla base dell’indirizzo, ma nulla vieta che possano farlo anche in dissenso. In ragione di ciò, dovrebbe cambiare, a stretto rigore, il paradigma basilare del diritto amministrativo, ossia la dottrina dell’”immedesimazione organica”, secondo cui l’atto dell’organo, avente efficacia esterna, si imputa all’organizzazione; dovremmo oggi chiamarla “immedesimazione burocratica”, poiché l’atto non appartiene più all’organo, ma al burocrate. Questo portento è stato realizzato, fraintendendo due fondamenti teorici in astratto condivisibili: a) la distinzione tra poteri di indirizzo e di gestione; b) il principio d’imparzialità della pubblica amministrazione. Il decreto legislativo n. 29 del 1993 ha assegnato agli organi politici il potere d’indirizzo e al burocrate quello di gestione, assumendo che l’art. 28 della Costituzione (imparzialità) abbia inteso proteggere la gestione amministrativa dalle “parzialità” della politica. A mio avviso, tuttavia, sia la distinzione, sia il principio, sono invocati a sproposito. Indirizzare i passi altrui significa indicare la strada a chi cammina, cosicché l’indirizzo e la “gestione” dei passi appartengono a due diverse competenze; ma indirizzare i propri passi non significa altro, se non camminare. Il capo dell’apparato amministrativo può certamente indirizzare il lavoro di dettaglio dei suoi collaboratori, ma dare un indirizzo “gestionale” a tutto l’apparato significa, in buona sostanza, indirizzare se stesso, visto che è lui il capo dell’apparato. Il paradosso rende palese che il potere d’indirizzo postula necessariamente la gestione altrui, ossia l’altrui potere di amministrare. Ma se il capo dell’apparato non gestisce, non è più un vero capo e l’organo politico non è un vero organo, perché non amministra. Pare sensato che il Cdm indirizzi l’operato dei singoli ministri, in quanto indirizzatore e indirizzato non coincidono, ma non pare sensato che il ministro indirizzi se stesso, se non riconoscendo che egli non è più il capo del suo ministero, mentre il vero capo è il dirigente generale, titolare del potere di emanare e firmare i provvedimenti; al contempo non pare sensato che il ministro, dopo aver indirizzato se stesso, si limiti a guardare e non compia gli atti esecutivi dell’indirizzo, assumendosene la responsabilità. Inoltre si può osservare che l’imparzialità della pubblica amministrazione non coincide con l’asetticità politica. Se coincidesse, dovremmo concludere che fino al 1993 il principio costituzionale sia stato sistematicamente disatteso; al contempo dovremmo ritenere che in quegli Stati dove i ministri fanno i ministri, sottoscrivendo i decreti, imperverserebbero discrezionalità e arbitrio. Per non cadere nell’assurdo, si deve pensare che la par condicio civium, assicurata dalla legge, vincoli l’attività amministrativa dell’organo politico, non meno che quella del burocrate; e fin quando l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non viene meno, l’orientamento politico, approvato dal corpo elettorale, impresso dall’organo politico all’attività amministrativa non viola di per sé il principio d’imparzialità. La politica che arretra di fronte alla burocrazia non assicura una maggiore dose di “imparzialità”; si sottrae alla responsabilità di far corrispondere la gestione della res publica alle promesse elettorali e la rende meno trasparente, assegnando all’ignoto burocrate il ruolo proprio dell’organo politico.


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