Attualità

La politica non è guerra Basta con la logica dell’avversario-nemico

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
L’esasperazione dei toni polemici promossa e alimentata da alcuni settori del mondo politico non dovrebbe stupire più di tanto, dal momento che i precedenti non mancano. Eppure, non dovrebbe essere sottovalutata. Fra le caratteristiche salienti della democrazia vi è l’obbligo di praticare la discussione pubblica secondo un sistema di regole del gioco che non contempla, e anzi esclude, l’iniqua discriminazione dell’avversario. La politica non è la guerra e vincere una competizione attraverso la persuasione preclude la possibilità di eliminare un nemico o farne un perdente sottomesso. E tuttavia, si tratta di una tentazione ricorrente, perché la costruzione del nemico agisce come un tonico di cui leader irresponsabili hanno bisogno per nascondere i loro fallimenti e rafforzare i loro messaggi.
L’idea che la politica sia una forma di antagonismo radicale costruito sulla polarità amico/nemico finisce per considerare gli avversari politici come minacce da togliere di mezzo. E se le minacce che rappresentano diventano esistenziali, allora ogni strumento a disposizione per combatterle diventa automaticamente lecito. La moderazione viene così scambiata per debolezza, la prudenza per viltà, il dialogo per cedimento.
La politica dell’inimicizia, che si prefigge lo scopo di negare all’avversario lo statuto di partigiano-amico per trasformarlo in partigiano-nemico, tende quasi inevitabilmente a scadere in attacchi velenosamente personali o in aggressioni verbali rivolte ad hominem. Gli attacchi alla storia e alla biografia personale dell’avversario sono progettati per fare in modo che, quando presenta le sue idee e i suoi progetti, gli ascoltatori siano spinti a non prestargli ascolto, perché sono stati preventivamente indotti a credere che di lui non ci si possa fidare. È a questa logica politica che si deve l’adozione di un linguaggio in cui prevale l’adozione di giudizi personalizzati sugli interlocutori anche a prescindere dalla loro collocazione ideale, così da delimitare il campo politico tra chi è e chi non è un “amico” del popolo o un vero “patriota”. Ed è in questo modo che l’avversario, da legittimo protagonista della competizione politica, si trasforma in un nemico che va escluso dall’arena pubblica in cui si svolge il confronto democratico tra posizioni diverse e concorrenti.
Trattare l’avversario non come partigiano-amico, ma come partigiano-nemico è una tentazione che si presenta di frequente, e che tuttavia i sistemi democratici cercano di tenere sotto controllo anche per prevenire la distruzione reciproca assicurata.
Quando i partiti politici sono ben finanziati e organizzati, si può contare sulle loro risorse per socializzare i potenziali candidati ai rituali del rispetto e della moderazione, ma quando i partiti sono deboli è più probabile che gli attori politici pensino a se stessi non come a potenziali funzionari pubblici investiti di responsabilità nei confronti del sistema democratico, ma come a imprenditori impegnati in uno scontro per la conquista del potere che può essere condotto senza esclusione di colpi. Le regole informali di ingaggio della democrazia potrebbero essere descritte come un codice di civiltà dettato dall’ipocrisia.
L’ipocrisia – l’omaggio che il vizio rende alla virtù – sarà pure un ripiego, ma un ripiego necessario se si vuole impedire che la lotta politica finisca per immettere ostilità nella vita pubblica e dividere la società in schieramenti contrapposti, ciascuno dei quali evita la possibilità di aprirsi alle ragioni dell’altro.
Anche i diversi sistemi elettorali svolgono un ruolo importante nell’incentivare la virtù civilizzatrice dell’ipocrisia. I sistemi a maggioranza relativa in collegi uninominali a turno unico non favoriscono la cooperazione interpartitica che, anzi, tende a essere condannata come una forma di tradimento. I sistemi di voto proporzionale, dal momento che spesso richiedono ai partiti di formare coalizioni per accedere ai ruoli di governo, tendono invece a incoraggiare la cooperazione e quindi a contenere la tendenza a demonizzare chi, in futuro, potrebbe rivelarsi un alleato.
Se assicurarsi un incarico ministeriale dipende dalla formazione di una coalizione con uno o più partiti diversi o forse anche rivali, si creano incentivi sostanziali a esercitare una qualche forma di autocontrollo e di moderazione. Questo non significa che il vincitore debba rinunciare a un certo grado di intransigenza, poiché il dialogo deve comunque interrompersi a un certo punto, ma ciò non dovrebbe mai far venire meno il rispetto nei confronti dell’avversario.
La logica antagonistica che mira a promuovere l’unità politica aprendola alla lotta contro il nemico interno attraverso una mobilitazione ideologica, che serve da diversivo rispetto ai conflitti e alle diseguaglianze reali che attraversano la società, può avere il fascino della semplificazione, ma non è priva di insidie nemmeno per coloro che la praticano. Ed è comunque nell’interesse di tutti contenere la lotta partitica rispettando le regole del gioco democratico, che permettono la coesistenza di un pluralismo delle opinioni e la loro trasmissione dalla società alle istituzioni dello Stato. Carl Schmitt, il grande pensatore politico-giuridico di stampo conservatore, sosteneva la divisione primordiale in politica è tra amici e nemici proprio negli anni in cui la Repubblica di Weimar si stava avviando verso la sua catastrofica fine.
Ma fu proprio questa visione della politica, radicalmente ostile all’ipocrisia democratica, il più desiderabile dei vizi politici, a distruggere la democrazia di Weimar, incoraggiando sia i comunisti che i nazisti, e tutti gli altri, a considerare i loro avversari come nemici e traditori.
Certo, la storia non si ripete e non c’è nel nostro orizzonte nulla che faccia pensare al riproporsi di una situazione analoga, ma non sarebbe male chiedersi se, per esempio, non siano anche le ripetute manifestazioni di deterioramento del linguaggio politico a incentivare l’astensionismo e la sfiducia per la politica.

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