Attualità

La Rai e la lottizzazione eterna

di Eleonora Ciaffoloni -

SEDE RAI DI VIALE MAZZINI DIREZIONE GENERALE CAVALLO


Cambia il vento, ma le lottizzazioni alla Rai no.

Non è la prima volta – anzi, è ormai la prassi – che con il cambio degli equilibri in Parlamento, si assalti anche la diligenza Rai. Il motivo è semplice, la politica e il servizio pubblico vanno a braccetto e se la linea governativa cambia, questa si rispecchia inevitabilmente in una riforma della Rai.

Un iter che ha fatto capolino sin dalle prime trasmissioni in analogico: fin dal 1953 la gestione si è divisa tra la parte più “aziendale” della Rai (che prescindeva dal colore politico) e quella espressione di un solido potere democristiano. Perché una Democrazia Cristiana al governo, significa Dc in Rai. E così accade anche alla dirigenza.

Un criterio di presenza nel servizio pubblico che corrisponde alla forza elettorale nel Paese. Principio che si consolida, che rispecchia la realtà popolare e che quindi negli anni vede l’ingresso in Rai di esponenti di estrazione non prettamente cattolica, quindi socialisti e socialdemocratici. Una sorta di fase di preparazione alle cosiddette “lottizzazioni” che vedono l’alba nel 1975, anno della riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, con il passaggio della Rai dal controllo del governo a quello parlamentare. In parole povere, la spartizione dei canali radiotelevisivi della Rai su base elettorale in una sorta di “riconoscimento” alle diverse forze politico-culturali. Il risultato fu la divisione dei canali e reti: Rai 1 sotto l’ala della Democrazia Cristiana, Rai 2 sotto influenza del Partito Socialista Italiano e Rai 3 in una convivenza tra Dc e Partito Comunista Italiano.

Cosa cambia negli anni? Poco di strutturale – se non che il criterio di spartizione si apre a redazioni e gestionale – e i partiti. Perché la lottizzazione non si ferma – anche se forse si mostra più debole – neanche con il terremoto Tangentopoli che fa sparire i partiti lottizzatori, continuando ad assistere alla prassi dell’influenza governativa sulla prima rete e la spartizione sulle altre. Se Rai 1 rimane filogovernativa, Rai 2 è in quota centrodestra e Rai 3 in quota centrosinistra. Così accade per i governi Berlusconi, Prodi, Amato e D’Alema, ma debolmente. Tanto che, nel 2004, il governo del Cavaliere approva la legge Gasparri sul riordino del servizio pubblico radiotelevisivo, reintroducendo “la lottizzazione nella sua pienezza” e affidando al Parlamento l’elezione dei nove consiglieri.

Anni a cui segue poi, una sempre maggiore – manifestata, ma effettivamente mai veritiera – insofferenza di fronte al meccanismo delle lottizzazioni. Per ogni alternanza al cambio di governo, una voce dall’opposizione sollevava l’annosa questione con lo slogan “fuori i partiti dalla Rai”, mentre, gli stessi, continuavano a spartirsi le nomine del pubblico servizio. Esempio di polemica, ma anche di grandi lottizzazioni, l’ex segretario del Partito Democratico Walter Veltroni che lasciata la sua vecchia carica dei dem, si è dato alla guerra contro la lottizzazione in Rai. Lo fece con una lettera al Corriere della Sera, lasciando perplessità manifesta considerando che, allo stesso momento, a coprire ruolo del consiglio di amministrazione di viale Mazzini vi era Giorgio Van Straten, nominato proprio da Veltroni nel 2009.

Una lottizzazione che è prassi quando fatta in prima persona, ma che diventa errata quando viene fatta da altri: si predica bene, ma poi si razzola sempre allo stesso modo. E Veltroni non è stato l’unico. Da dem a dem, era stato anche Enrico Letta, due anni fa a esprimere la necessità di nuovi criteri per le nomine per un “cambio di passo”, coadiuvato dall’ex Presidente del Consiglio, il pentastellato Giuseppe Conte che riteneva che quel momento di cambio di nomine fosse “quello giusto per riformare la Rai e sottrarla alle ingerenze della politica”. Entrambi, però, senza ricordare di essersi spartiti, fino a poco prima, le nomine. Un retaggio che quindi piace, se la tendenza è quella di colore e che non piace, quando non lo è. E non possiamo fare confronto alla lottizzazione che divideva le reti tra Dc, Psi e Pci (TeleNusco, TeleCraxi e TeleKabul): perché il pluralismo era garantito.

Dal crollo dei partiti lottizzatori vi è stata in Rai una nuova tendenza a voler arginare lo “strapotere” di Berlusconi sul campo politico e su quello multimediale, con la forza preponderante acquisita dalla rete privata del Cavaliere. Una tendenza che ha trasformato la Rai in un servizio “monocolore”, con quella che molti chiamano “egemonia culturale della sinistra”, con il passaggio di testimone tra il Pds e il Pd. Una tendenza che ha (quasi) trasformato l’intera Rai in megafono della sinistra, contrapposta alla Mediaset della destra.

Anno domini 2023, siamo di nuovo alle polemiche delle nomine, con la richiesta di “spoliticizzazione” della Rai che si ripete. Perché con gli equilibri che spingono a destra, la Rai non poteva rimanere tale e lo spoil system era inevitabile. Succede da trent’anni: ma le abitudini “egemoniche” sono dure a morire.

 


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