La sicurezza a Rio de Janeiro: sangue e federalismo
Centotrentotto morti in una sola notte nelle favelas di Rio de Janeiro. Centotrentotto vite spezzate in una guerra che non è più lotta al crimine, ma disfatta della civiltà di uno Stato. Polizia federale, trafficanti, cittadini inermi, tutti risucchiati da un vortice di violenza che rivela la fragilità di un modello istituzionale capace di moltiplicare le autonomie, ma non garantire sicurezza, equità e legalità.
Ciò che è accaduto a Rio mette a nudo i limiti del federalismo quando non è sorretto da una cultura politica unitaria e da principi giuridici saldi, se ogni Stato federato dispone di proprie forze di polizia, con strategie e priorità autonome, il potere si frammenta e l’ordine si dissolve. Dove il diritto si frantuma, resta solo la forza. Come ha ricordato Zagrebelsky. “La democrazia esiste soltanto finché lo Stato mantiene il monopolio legittimo della violenza e lo sottopone alla legge».
A Rio de Janeiro quel monopolio è svanito, la violenza resta, la legittimità no. Dietro quei cadaveri non c’è soltanto la criminalità, ma il fallimento di un’idea di Stato civile che ha delegato troppo e coordinato poco. Persino il criminale conserva il diritto a un processo, la giustizia non è il contrario della pietà, ma il suo compimento razionale, affermava Bobbio. Quando la polizia agisce come un esercito in guerra e l’ordine si trasforma in sterminio, lo Stato non difende più i cittadini, li seleziona.
È il punto estremo del federalismo, quando l’autonomia è privata di garanzie e coordinamento, si tramuta in anarchia. L’uguaglianza conquista giuridica e democratica per eccellenza, si fa evanescente. In senso agostiniano, la tranquillità e l’ordine non è assenza di conflitto, ma ordine giusto orientato al bene dell’uomo. E l’uomo, in quanto imago Dei, non è mai un mezzo, neppure quando sbaglia. Il “non uccidere” non è un tabù moralistico, ma la soglia che impedisce allo Stato di scivolare dalla tutela dei diritti alla loro sospensione selettiva.
Una politica della sicurezza fedele a questo principio non moltiplica apparati, ma ricompone responsabilità politiche e amministrative, unifica gli standard nell’uso della forza, forma alla proporzionalità, investe in prevenzione sociale e misura i risultati non in arresti o in chilometri pattugliati dai militari, ma in vite preservate. L’Italia non è il Brasile. Ma l’eco di quella tragedia attraversa anche il nostro dibattito. L’autonomia differenziata, proposta come rimedio all’inefficienza, rischia di diventare strumento di diseguaglianza strutturale. Sanità, scuola e sicurezza non possono dipendere dalla geografia o dalla lotteria fiscale, il diritto alla cura, all’istruzione e all’incolumità è fondamento repubblicano, non concessione territoriale.
Già nel dibattito che ha preceduto i decreti sicurezza varati dal compianto Ministro dell’Interno Maroni (2008-2011) si intravide, per un istante, il pericolo di uno slittamento in senso regionalista e privatistico (le ronde) della sicurezza pubblica. Quindi, si tentò di attribuire ai Comuni e alle Regioni poteri propri di polizia locale e competenze autonome in materia di sicurezza. Quel progetto non maturò e fu bene così. Perché avrebbe minato il principio cardine di un’unica catena di comando nazionale. Come ammonisce Michele Ainis, «più si divide il potere, più serve una regia comune per non dissolverlo».
E come ricorda Cacciari, la Costituzione italiana non è centralista, ma “pensiero dell’unità” e solo l’unità garantisce libertà e diritti equi. La brutalità di Rio ci ammonisce. L’autonomia, senza una coscienza statale e una cultura dall’anima unitaria, è un lusso che pagano i più deboli. In Italia le comunità più esposte restano quelle meridionali, ove i divari sociali e infrastrutturali rischiano di trasformare l’autonomia in abbandono.
Il sangue versato nelle favelas compreso quello dei poliziotti non appartiene solo al Brasile, è il sangue di ogni democrazia che smarrisce la misura tra libertà e ordine, tra umanità, prossimità e sovranità. Quando lo Stato abdica, non vincono né la sicurezza né la legge, vince chi spara per primo. E chi tace, alla fine, diventa complice del rumore.
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