Primo Piano

La tecnoguerra

di Redazione -

PIERGIORGIO ODIFREDDI MATEMATICO


di GABRIELE GRAZI
“L’Occidente – che non è una civiltà bensì una tecnocrazia – è messo molto male. Neanche riesce ad accettare quali sono i suoi problemi, a partire dalla monetizzazione di tutto – gli unici veri valori sono economici -, dall’eccesso dei consumi ai danni di due terzi del mondo”. Parola del professor Piergiorgio Odifreddi, che abbiamo incontrato in occasione del suo spettacolo sull’lligenza artificiale che si svolgerà oggi al Teatro Petrarca di Arezzo nell’ambito del Festival scientifico Arezzo Science Lab.
Iniziamo dal tema del suo spettacolo: l’intelligenza artificiale. Ricordo con grande impressione le battaglie scacchistiche tra il maestro Kasparov e Deep Blu. Credo che simboleggino perfettamente un nodo centrale in questo concetto: l’apprendimento.
Parlerò anche del momento in cui il pc superò gli umani negli scacchi e in matematica. Oggi c’è stato un salto essenziale. Prima i programmi erano scritti da esseri umani, oggi invece si è andati molto avanti: non c’è più la classica figura del programmatore. Si tratta più direi di un costruttore di reti, e poi direttamente il programma compie un salto autoprogrammandosi e autoistruendosi, questo è un punto fondamentale. Pensiamo a programmi come “AlphaGo” o alla “Chat GPT” che tra le altre cose permette agli studenti di farsi dare i compiti già sviluppati. Poi contestualizzerò il momento attuale dell’intelligenza artificiale partendo dall’antichità. Ci sono dei miti come quello di Galatea o come il Golem di Praga che anticipano molti aspetti come idea e racconto. Poi c’è la storia vera e propria che inizia negli anni ’50 a partire dalle macchine e progetti di Turing.
Se da un lato le applicazioni sono innumerevoli e assolutamente nobili, dall’altro si prospetta una sorta di seconda guerra fredda tra la Cina e gli Usa per lo sviluppo tecnologico. Nel 2019 il segretario per la Difesa Usa ha dichiarato: “La nazione che per prima controllerà tale tecnologia avrà un vantaggio decisivo sul campo di battaglia per molti e molti anni. Dobbiamo arrivarci per primi.” Qual è il traguardo e quale la posta in palio?
Tutte le tecnologie sono state inventate o spesso utilizzate anche per fini bellici, non è una prerogativa dell’intelligenza artificiale, a partire dagli specchi ustorii di Archimede o dalle sue mani di ferro che rovesciavano le navi. Una buona parte degli scienziati, per non dire la maggioranza, fa ricerche che sono direttamente o indirettamente legate agli armamenti. Poi si possono presentare in maniera edulcorata, mostrando la corsa allo spazio ad esempio. Nel progetto Apollo era talmente evidente che la ricerca fosse in sostanza militare che una volta arrivati al successo le altre missioni furono cancellate non essendoci più interesse di facciata. Quello è stato il momento in cui l’America ha superato l’Urss non nella corsa allo spazio ma in quella agli armamenti, con i calcoli per i razzi e altro. Certo l’intelligenza artificiale è un altro di questi campi di ricerca e credo che gli Usa siano abbastanza avanti, anche se c’è lo zampino del Giappone con quella che si chiamava la quinta generazione della programmazione già dagli anni ’80. L’Occidente è in generale avanti anche sugli armamenti convenzionali, basta vedere cosa succede in Ucraina, dove una grande potenza come la Russia si trova in difficoltà a battere una potenza secondaria come l’Ucraina, che non gioca con i suoi armamenti ma con i nostri. Purtroppo il fatto di essere tecnologicamente avanzati non vuole dire che lo si sia anche moralmente e intellettualmente. In questi casi si rischia che l’opera degli scienziati divenga più che collaborazione direi collaborazionismo.
Ha da poco pubblicato il suo ultimo libro “Pillole Matematiche” (Cortina Raffaello), che consiglio di cuore perché è un libro pensato ottimamente e scritto ottimamente. Il lettore troverà incursioni in tutti i campi dello scibile umano, dalla musica alla letteratura, dall’economia all’arte, e ovunque lei rintraccia e ci narra per l’appunto pillole matematiche. E’ la curiosità la prima anima del suo lavoro?
Sicuramente, ma anche l’esperienza. All’inizio io studiavo solo matematica e quello mi bastava. Poi ho iniziato ad accorgermi di un atteggiamento diffuso nelle persone, dove si tendeva a considerare la matematica un argomento quasi ostile, avulso dalla propria vita. Allora mi sono reso conto leggendo, guardando film, osservando monumenti, che la matematica in realtà è molto più pervasiva di quanto non si pensi comunemente, per cui ho ritenuto importante diffondere questo concetto per evitare questo errore comune di pensiero sulla matematica. E invece aiutare a vederla come presente in tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana, iniziare a viverla e osservarla in maniera meno timorosa. Credo che sia fondamentale per le nostre vite.
Quotidianamente utilizziamo oggetti di cui in realtà non sappiamo nulla ma di cui non possiamo quasi più fare a meno, dall’onnipresente cellulare al frigo al televisore. E’ normale che sia questa discrepanza tra l’utilizzo e la conoscenza di un mezzo oppure c’è da allarmarsi?
In realtà lo user friendly che c’è dal pc ai cellulari prevede che la tecnologia sia trasparente, più è trasparente meglio è per i fruitori. Ad esempio per guidare l’automobile non c’è bisogno di una conoscenza delle funzioni di un motore, si utilizza e si mette un filtro tra sé e la tecnologia. Però la scienza ha certamente un compito: far capire che queste cose non sono miracoli che avvengono per caso, ma che dietro la tecnologia c’è un pensiero scientifico che si basa sul linguaggio e sulle tecniche matematiche. Dovremmo sapere quanto più possibile del mondo in cui viviamo e di come lo viviamo, altrimenti si rischia di cadere in quello che diceva McLuhan, che l’uomo moderno utilizza gli oggetti tecnologici come il selvaggio di una volta usava le sveglie che gli portavano i conquistadores, se le metteva al collo. Noi spesso non conoscendo quasi nulla della tecnologia finiamo per abusarla, dall’utilizzo delle auto che ingolfano le nostre città o al telefono che si abusa in maniera tale che si iniziano a leggere i proclami per contrastarne la dipendenza. Il rischio è quello di diventare degli idioti tecnologici, che utilizzano la tecnologia senza sapere nulla, come dei ciechi destinati a degli urti. Certo non c’è bisogno di sapere cosa c’è dietro per utilizzarla, così è pensata, ma questo è senza dubbio un rischio. Poi c’è anche una parte estetica e culturale: il fatto di come funzionino gli oggetti dovrebbe incuriosirci, dall’elettromagnetismo ottocentesco per l’elettricità alla fisica quantistica per pc e smartphone, in fondo l’essere consci del mondo in cui si vive sarebbe il sintomo di un’umanità matura, mentre invece si rischia di essere come dei bambini senza consapevolezza.
Un dato che emerge con forza dalla lettura del suo libro e in generale dai suoi lavori è la sinergia, la compenetrazione tra i saperi. Una grande scoperta può muovere delle sensibilità umanistiche e viceversa. Questa è una visione metodologica centrale nel suo lavoro intellettuale?
È la constatazione che il cervello dello scienziato e quello dell’umanista sono la stessa cosa. Poi anche qui se si conoscono i meccanismi possiamo approfondire le aree coinvolte nelle varie funzioni, ma è lo stesso cervello, si tratta di produrre aspetti complementari dell’attività cerebrale che poi chiamiamo cultura. Si tratta di evitare di creare un fossato tra queste due cose. I grandi problemi che gli umanisti affrontano nella letteratura, nella teologia, nella filosofia, sono gli stessi che gli scienziati affrontano alla base del loro lavoro. Per citare il famoso quadro di Gauguin “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, con la differenza che la scienza affronta problemi reali mentre spesso le risposte delle religioni o delle filosofie sono risposte mitologiche. Ci vogliono entrambi gli atteggiamenti complementari, se si riescono ad averli entrambi si diviene persone complete. Se posso sottolineare, spesso gli uomini non completi ma dimezzati sono gli umanisti che snobbano la cultura scientifica, a partire dal loro vate Benedetto Croce che diceva “i critici pensano che io sappia poco di scienza, si sbagliano. So molto meno di quanto pensano loro”. E’ un atteggiamento da ignorante, esattamente come chi non abbia mai letto Dante o Lucrezio. Chi si vanta di una cultura a metà fa la figura del fesso. Dobbiamo contrastare questa posizione a metà che ritiene alcuni aspetti del sapere superflui o inutili, tutto è collegato.
Lei scrisse anche un libro insieme a Papa Benedetto XVI, “Dialogo tra fede e ragione”. Giocando con la geometria, possiamo dire che la filosofia della ragione e la filosofia della religione sono ellissi dove una delle due è centrale o sono parallele destinate a non incontrarsi?
Direi più delle parallele. Sono due modi quantomeno contrapposti di affrontare la realtà e i problemi che solleva. E’ difficile trovare un incontro tra questi due mondi, io ci ho provato parlando con chi la pensa diversamente, e a onor del vero dall’altra parte penso che diranno altrettanto. In particolare in Italia il cristianesimo ufficiale, canonico, è una religione dogmatica per cui le risposte si trovano scritte in un libro, chissà poi perché le risposte si devono trovare in un solo libro. Oppure la verità è quella che annuncia qualcuno parlando ex cathedra dal balcone di San Pietro. La scienza fa esattamente il contrario. Per cercare di trovare la verità bisogna osservare il reale, ma una volta che si pensa di aver trovato dei dati che fanno presagire una verità, si mettono alla prova, si tenta di confutarli perché potrebbe ad esempio essere un caso. Sono due modi diversi, l’uno dogmatico, l’altro empirico. L’uno a priori, l’altro a posteriori. La scienza dà risposte dopo l’osservazione. Quindi è difficile mettere le due cose insieme, non a caso la maggioranza degli scienziati è non credente. Avvenire anni fa divulgò il dato secondo cui il 7% degli scienziati è credente, questo vuol dire che ben il 93% è non credente. Tra l’altro quel 7% è quasi tutto fatto da ebrei e protestanti, non da cattolici, che hanno un atteggiamento meno dogmatico e più legato all’interpretazione delle sacre scritture, non affidandosi in toto ad altri che interpretano ogni cosa al tuo posto imponendoti la loro visione. Sono due modi di pensare antitetici. Questo non vuol dire che non ci possa essere un confronto, un dialogo, come anche io ho cercato di fare, magari per convertirli!
In una recente intervista lei ha dichiarato che le armi sono il peccato originale della scienza. La creazione al servizio della distruzione è sempre l’antico Eros e Thanatos o c’è dell’altro?
Innanzitutto c’è il fatto che gli scienziati sono uomini, non semi-dei. Quindi quando fanno il loro lavoro si portano dietro gli interessi personali, le ideologie. Quindi in ogni momento della ricerca entrano in gioco questi aspetti personali, o quantomeno può succedere. Anche perché non dobbiamo essere ingenui, non sempre si fa ricerca mossi dalla volontà delle cose alte, ma per far carriera, per ambizioni, per avere finanziamenti. Basta leggere “La Doppia Elica” di Watson, dove la ricerca scientifica è vista anche come una gara, in quel caso non c’erano in palio soldi ma l’ambizione di arrivare primi, di vincere. Tutte queste cose non hanno a che fare con la volontà di scoprire la verità dei fatti, che diviene un mezzo e non un fine. E’ come la citazione del sottosegretario americano che ha fatto lei, arrivano degli input dalle autorità che impongono delle linee alla ricerca e gli scienziati spesso di adeguano. Un caso emblematico fu a Los Alamos dove è stata fatta la bomba atomica. Già dal ’44, un anno prima che finisse la guerra, si sapeva che i tedeschi non erano in grado di sviluppare l’atomica. I servizi segreti erano stati in Germania per verificare e non avevano trovato nessun progetto avanzato. Los Alamos era stata creata con questa paura, che la Germania arrivasse prima all’atomica, quindi possiamo anche pensare che all’inizio in quel clima fossero mossi da scopi nobili, ma quando si è saputo che i tedeschi non avrebbero realizzato la bomba, in realtà solo uno degli scienziati del progetto americano se ne andò, e non a caso prese il Nobel per la pace divenendo il segretario della conferenza degli scienziati contro l’atomica. Tutti gli altri rimasero prevalentemente per un interesse intellettuale sul funzionamento dell’atomica che doveva però sottostare alla volontà ultima dei finanziatori che avevano interesse di tutt’altro genere, sapevano che avrebbero sfruttato la scoperta per altri fini ma non si sono fermati.
Ci sono anni in cui sembra che forze provenienti da ogni dove si concentrino in un innesco particolare di creatività e innovazione. Ad esempio pensiamo agli anni Venti del Novecento dove in un brevissimo lasso di tempo abbiamo avuto gigantesche rivoluzioni in moltissimi campi della cultura, le avanguardie artistiche, la fisica quantistica, gli anni ruggenti americani in musica e letteratura… Come giudica il periodo attuale?
Dipende da dove ci si trova nel mondo. Se pensiamo al mondo occidentale a me sembra un periodo di decadenza, anche se forse non sono particolarmente qualificato per dare questa risposta. La civiltà occidentale mi sembra che abbia perso valori e che l’unico obiettivo che abbia sia la sopravvivenza. A differenza dell’Unione Sovietica che a un certo punto si è dissolta, in noi sembra scattato l’istinto di sopravvivenza. E poi tutto è diventato così monetizzato, gli unici veri valori sono quelli economici, proprio nel vero senso del termine i “valori”, come i metalli preziosi. Vedo anche con un certo fastidio il nostro momento storico, la nostra civiltà. Una volta chiesero al Mahatma Gandhi cosa pensasse della civiltà occidentale. Lui rispose: “Sarebbe una bella idea!”. Ovviamente non pensava che ci fosse. Io la penso ugualmente, noi abbiamo più che una civiltà una tecnocrazia, dove c’è un eccesso di tutto, dal consumo in primis. E c’è la cecità di non voler vedere i problemi macroscopici della civiltà: dalla sovrappopolazione, siamo arrivati a otto miliardi, alla produzione, che produce da un lato la crisi energetica e dall’altra la crisi climatica. Si tenta di affrontare i piccoli problemi localmente ma rifuggiamo dalle grandi domande, come per quanto concerne il problema della sovrappopolazione: la soluzione significherebbe elevare il tenore di vita. Sono i Paesi ricchi quelli che non fanno figli. Quindi se vogliamo risolvere il problema dell’immigrazione, o dell’emigrazione, dipende da che punto si osserva, non si tratta di fare muri come ha letteralmente detto l’altro giorno la von der Leyen, dobbiamo riversare bensì una buona parte della nostra ricchezza nei Paesi del terzo mondo a cui l’abbiamo precedentemente sottratta. Il secondo problema è l’eccesso di consumo. E la distribuzione di questo eccesso. Pochi anni fa eravamo arrivati in una situazione in cui la metà della ricchezza del mondo era nelle mani dell’1% della popolazione. Adesso dopo il Covid si è visto che è ancora peggio: i due terzi della ricchezza mondiale sono in mano all’1%. Quindi abbiamo una torta divisa in tre parti e due terzi sono in mano a solo l’1% della popolazione. E’ ovvio che così non possa andare avanti: troppo consumo, troppa produzione inutile, troppi squilibri, dopo un certo limite diventa imbarazzante. Noi pensiamo che l’Occidente si salverà, ma è un modello che va avanti da centinaia di anni aggravandosi. Per ora avendo la supremazia economica e militare, cose che vanno molto d’accordo, ci siamo potuti permettere questo predominio. Vedremo come andrà avanti anche perché non solo non si cerca di risolvere seriamente i problemi, ma manca addirittura la fase dell’accettare che si tratti di problemi.

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