La voce di Gaza diventa memoria collettiva. Il film racconta l’angoscia di un dramma.
L’emozione della tragedia di Gaza si impossessa della Mostra. Il Lido ascolta la sua voce e si commuove. Non un canto, non un grido, ma il filo sottile e ostinato di una bambina di 6 anni, chiusa in un’auto sotto attacco degli israeliani nella striscia dilaniata. Si chiamava Hind Rajab. La sua registrazione, diffusa su internet, ha attraversato telefoni e coscienze, diventando materia viva di cinema. Da quell’audio la regista tunisina Kaouther Ben Hania ha costruito The Voice of Hind Rajab, presentato ieri in concorso a Venezia 82: un’opera che non racconta solo il dramma di un popolo che rischia di essere sradicato dalla sua terra, ma interroga la responsabilità di chi vede e ascolta. Ben Hania, reduce dal successo di Les filles d’Olfa, ha abbandonato un progetto decennale per inseguire l’urgenza di questa storia. L’intuizione è nata in uno scalo a Los Angeles, quando la regista ha sentito la voce di Hind. Non era un frammento di cronaca, ma la spinta verso una scelta etica. Da quel momento ha raccolto testimonianze, incontrato i volontari della Mezzaluna Rossa che tentarono invano di salvarla, e ha deciso di trasformare quel materiale in un film costruito sull’attesa. La violenza, qui, non si mostra. Non ci sono corpi martoriati né macerie: tutto resta fuori campo, dietro porte, muri, linee telefoniche. È una decisione formale e politica. In un’epoca in cui la pornografia del dolore invade i social e i telegiornali, Ben Hania sceglie la sottrazione, l’ellissi, l’asciuttezza. Così la tensione si concentra sull’ascolto: i minuti che scorrono, le linee occupate, le mappe inutili, le interferenze radio. Non c’è montaggio che alleggerisca, non c’è musica che guidi: resta solo l’attesa, che diventa forma del film e misura dell’angoscia. Gli interpreti non recitano la tragedia: la rievocano. Sono volontari, operatori, persone che hanno vissuto quei momenti e che si prestano a rimetterli in scena con dignità e sobrietà. C’è la verità nei dettagli: una penna che stringe, un “resta con me” al telefono, una pausa lunga come un abisso. È teatro d’emergenza, girato in un’unica location che sembra piegarsi sotto il peso dell’impotenza. La reazione della critica è stata compatta. La rievocazione filmica entra nell’anima più di tante analisi. Al centro c’è la voce autentica di Hind, una presenza che costringe lo spettatore a misurarsi con la responsabilità. Non è un film che riscrive la Storia, la illumina dai margini, trasformandola in memoria collettiva. “Il cinema può resistere all’amnesia”, afferma la regista. Qui la resistenza coincide con la durata stessa della chiamata: non abbassare il volume, non interrompere l’ascolto, non voltarsi dall’altra parte. Ecco allora che The Voice of Hind Rajab diventa molto più di una cronaca di guerra: è un atto politico e insieme un gesto d’amore. Non agita bandiere, non cerca l’istantanea virale: chiede attenzione, raccoglimento, silenzio. Supera i confini di Gaza per toccare un tema universale: l’abbandono, la rottura del patto di protezione, la colpa di chi non arriva. È questo che resta, uscendo dalla sala: la sensazione di aver condiviso il tempo di un dolore epocale cui non c’è fine. E questa è l’angoscia (oserei dire quasi religiosa) più grande, se davvero tutti gli uomini sono uguali. La forza del film sta nel rifiuto di trasformare la tragedia in spettacolo. L’emozione è urto diretto tra una voce e la coscienza di chi guarda. Hind è una presenza che ci riguarda, e che Venezia accoglie nella memoria collettiva.
gli Psicoanalisti e la ferita
Di fronte a immagini e voci come quelle di Hind, anche gli psicoanalisti italiani hanno preso posizione. In una dichiarazione pubblica hanno espresso profonda preoccupazione per la crisi umanitaria di Gaza, sottolineando l’impatto devastante dei traumi sui bambini e sulle comunità. Hanno ricordato che la violenza e la privazione prolungata incidono sulla psiche in modo duraturo, generando cicatrici che attraversano le generazioni. Gli psicoanalisti hanno richiamato l’etica dell’ascolto e della cura, condannando ogni forma di violenza e unendosi all’appello internazionale per un cessate il fuoco e per la difesa della dignità umana.
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