Politica

L’abuso d’ufficio, se la politica sceglie il male minore

di Francesco Da Riva Grechi -


La Corte Costituzionale aveva già chiarito che il reato di abuso d’ufficio, previsto e punito dall’art. 323 codice penale, comportava seri rischi di innescamento di quella che viene definita la “burocrazia difensiva”, per la c.d. “paura della firma”, conseguente al tremolio comprensibile della mano di gran parte dei sindaci e amministratori italiani al cospetto di ogni assunzione di responsabilità, che può comportare esiti del tutto imprevedibili, rischiando ogni volta carriera e reputazione, pur sapendosi “immacolati”.

Allora perché l’abrogazione di un reato che oltretutto in Italia è statisticamente inesistente, quanto al numero di condanne, ma invero devastante, quanto alla quantità di aperture di fascicoli, inchieste, indagini e procedimenti, suscita tanto scandalo? Una risposta tecnica e una maliziosa. Dal punto di vista tecnico si riterrebbe, soprattutto da parte delle istituzioni dell’Unione europea, che un reato del genere, astrattamente discorrendo, non possa sparire dall’ordinamento di un paese civile.

Ed in effetti il discorso teorico, in questa direzione, sarebbe del tutto condivisibile. Il punto è che in Italia non si riesce a sfuggire dalla “tentazione mediatica” di immettere nel circuito quel bene – informazione che, nel campo della cronaca giudiziaria e politica, ha assunto un valore enorme, spropositato, inestimabile e perverso.

La lotta alla corruzione ha un solo autentico fondamento: l’indipendenza, prima ancora che l’autonomia, della magistratura, ma diventa una farsa per due motivi: 1. L’assurda equazione di certi pubblici ministeri tra corruzione (presunta) e criminalità organizzata; 2. L’incapacità politico – legislativa di dominare il commercio mediatico delle notitiae criminis e delle apparizioni pubbliche di chi svolge attività investigative. Fin qui le considerazioni di carattere tecnico, che, in quest’ultimo caso, sono di una difficoltà notevole.

Altro è l’accennata risposta maliziosa, che consiste nel considerare i reati contro la pubblica amministrazione come baluardo dell’ordine burocratico, come polo dialettico nel burrascoso rapporto tra amministratori e sceriffi. Discutendo per anni su chi controlla i controllori, si è smarrito il filo del discorso, finendo per legittimare solo i controllanti, ibernare i controllati, ed eliminare, sul piano pratico, tutto quello che sarebbe da controllare ovverosia la gestione della cosa pubblica. Si, perché il sistema penale non solo si è ormai sostituito all’autotutela amministrativa, ma ha anche invaso il campo di quella che dovrebbe essere l’azione fisiologica dell’amministrazione, nella quale, se possibile, c’è ancora meno fiducia che nella magistratura.

Se la prima non funziona, non ha alcuna efficacia, ritengono molti cittadini, la seconda, pur ingiustamente, ha però il potere del sigillo, se non proprio dello scettro. La conclusione è che l’abrogazione del reato d’ufficio, che deve essere contestualizzata nelle assurde pratiche burocratiche e giudiziarie italiane, risulterà frutto di una scelta verso il male minore tra la paralisi della pubblica amministrazione e una riespansione del ruolo di quest’ultima, nella speranza che non si cada davvero in una connivenza generalizzata con i poteri criminali e il sistema di corruzione organizzata che costituisce il rischio fondamentale.


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