Attualità

L’anniversario della strage di Capaci non scioglie i veri dubbi e i depistaggi

di Rita Cavallaro -


Se l’Italia dovesse essere qualificata sulla base di un lavoro che le si confà, sarebbe il pulitore della scena del crimine. E più tenta di lavare via il sangue, più rimane invischiata nei grandi misteri che attraversano la storia del nostro Paese da ormai quarant’anni. Primi tra tutti i delitti e le omissioni nella lotta alla mafia, le pagine buie sulle quali, nonostante i maxi processi e gli arresti eccellenti dei padrini, nessuno è mai riuscito a fare realmente luce. Quelle stragi gridano vendetta, con i loro morti diventati eroi antimafia, che celebriamo ad ogni anniversario con cerimonie cariche di speranza ma fondate semplicemente sulle bugie. Perché nessuno, dal palco di Palermo, ieri ha potuto dichiarare di conoscere davvero il motivo della condanna a morte del giudice Giovanni Falcone, fatto saltare in aria da una bomba piazzata sull’autostrada a Capaci il 23 maggio 1992, mentre viaggiava in auto con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Ancora più dubbi solleva l’attentato di via D’Amelio del 19 luglio 1992, quando 50 chili di tritolo ridussero in mille pezzi il giudice Paolo Borsellino, che stava tentando di portare avanti la lotta alla mafia intrapresa con Falcone. Se per Capaci le verità sono rimaste celate, in quel cratere che ha inghiottito i servitori dello Stato nel momento in cui Giovanni Brusca premette il pulsante che azionò la bomba, su via D’Amelio l’ombra di un complotto e la terribile ipotesi della trattativa Stato-mafia furono serviti quando, dall’auto di Borsellino, scomparve l’agenda rossa. Il diario su cui il giudice aveva annotato segreti e nomi, dal quale non si separava mai soprattutto dopo l’assassinio del suo amato collega, fu portato via da un personaggio rimasto nelle tenebre, allontanatosi approfittando della concitazione del momento. E così su via D’Amelio prese vita la narrazione del coinvolgimento dei servizi segreti e di pezzi delle Istituzioni che, per fermare la guerra dichiarata dalla mafia stragista allo Stato, erano scesi a patti con il diavolo, i capi di Cosa nostra saldi nel progetto di sangue volto ad affermare la forza dell’organizzazione mafiosa siciliana. “Il 23 maggio di trentuno anni fa lo stragismo mafioso sferrò contro lo Stato democratico un nuovo attacco feroce e sanguinario”, ha detto ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, forte della sua lotta contro la mafia, che non ha risparmiato la sua stessa famiglia, quando il 6 gennaio 1980 uccise il fratello Piersanti, l’allora presidente della Regione siciliana in prima linea nel contrasto alle infiltrazioni criminali sul territorio. “A questi testimoni della legalità della Repubblica, allo strazio delle loro famiglie, al dolore di chi allora perse un amico, un maestro, un punto di riferimento, sono rivolti i primi pensieri nel giorno della memoria. Quegli eventi sono iscritti per sempre nella storia della Repubblica”, ha continuato Mattarella, sottolineando come “si accompagna il senso di vicinanza e riconoscenza verso quanti hanno combattuto la mafia infliggendole sconfitte irrevocabili, dimostrando che liberarsi dal ricatto è possibile, promuovendo una reazione civile che ha consentito alla comunità di ritrovare fiducia”. O almeno di non perderla del tutto, mentre la giustizia di giorno tesse la tela di Penelope e di notte la disfa. Di giorno assolve l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre del Ros, ma di notte non fa altro che alimentare i sospetti non solo sull’esistenza della trattativa Stato-mafia, ovvero quella rete di pezzi delle Istituzioni impegnata ad “aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”, per dirla con le parole dei giudici di Caltanissetta che hanno scagionato quegli imputati. Giudici che aprono la pista alla congettura temporale, ipotizzando che fu proprio quello il principio di tutto, quando l’agenda rossa di Borsellino sparì dalla scena del crimine e i segreti contenuti al suo interno avrebbero dato vita a intrecci tra Stato e mafia, al ricorso ai falsi pentiti per mettere in atto i depistaggi, a “ricostruzioni manipolate” e “amnesie istituzionali”. Nemmeno Giuseppe Ayala è rimasto indenne dalla vicenda: i magistrati lo hanno bacchettato per gli innumerevoli cambi di versioni sull’agenda rossa. A infittire i misteri ci sono poi le ammissioni del pentito Gaspare Spatuzza, la gola profonda che svelò il depistaggio di via D’Amelio e fece condannare Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92. E c’è lo stesso Messina Denaro, catturato il 16 gennaio scorso dai carabinieri del Ros. L’ultimo dei padrini che non parlerà mai. Anche sulla sua cattura si sono sprecate le tesi complottiste, affidate in prima serata da Salvatore Baiardo, il braccio destro dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, a Massimo Giletti nel novembre scorso, quando disse: “Chi lo sa che arrivi un regalino al governo. Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi e fare un arresto clamoroso e così arrestando lui magari esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore”. Parole suonate come una nuova trattativa, quando alla clinica La Maddalena di Palermo i carabinieri misero fine alla latitanza dorata del capo dei capi. Bugie che addensano le ombre, ma per il governo non ci sono mai stati dubbi. “Contro la mafia avanti con impegno instancabile”, ribadisce il premier Giorgia Meloni.

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