Cultura & Spettacolo

L’attualissimo metodo Hagen, tra teatro e cucina

di Michele Enrico Montesano -


Uta Hagen è nata nel 1919 a Gottinga, nella bassa Sassonia. Si trasferì da bambina negli Stati Uniti. Studiò canto e recitazione per debuttare a Broadway a soli 19 anni. Nella sua lunga carriera vinse anche un Tony Award come miglior attrice. Ma Hagen è stata anche e soprattutto una delle più influenti insegnanti di recitazione del secolo scorso. Docente all’Herbert Berghof Studio di New York dove forma attori come Al Pacino, Robert De Niro e Jack Lemmon. Il suo metodo si distingue da altri approcci celebri come quelli di Stanislavskij (pur condividendo lo stesso punto di partenza) o dell’Actors Studio di Lee Strasberg, per essere più concreto, meno teorico ma soprattutto meno invasivo dal punto di vista psicologico. All’attore non è richiesta un’immersione profonda nell’inconscio, bensì una semplice osservazione attenta e rigorosa del quotidiano. La verità scenica è l’unico obiettivo. Recitare non è fingere ma vivere autenticamente una situazione immaginaria. De Filippo direbbe: “Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”. Hagen non insegna a sembrare ma ad essere. Per raggiungere l’obiettivo Hagen teorizza le nove domande. Una recita What are the given circumstances? Quali sono le circostanze date? Da dove vengo? Per Hagen ogni scena è il risultato di ciò che è avvenuto prima. Spesso diciamo “non era il momento giusto per chiederglielo”. Ma pensiamo mai a “cosa è avvenuto prima” a quella persona? Da dove viene? Il teologo Ian MacLaren scrisse: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre”. Spesso è il passato, il contesto da cui si proviene, le influenze che ci portiamo appresso, che determinano il presente. Siamo influenzati da ciò che ci precede e questo avviene in ogni momento del quotidiano. A tavola, per esempio, un cioccolato fondente non “dice” la stessa cosa da solo o accompagnato da un passito. Il gusto si trasforma in base a ciò che lo ha preceduto, o con cosa si relaziona. Ecco che gli accostamenti gastronomici esaltano o contrastano certi sapori. Ferran Adrià: chef del celebre El Bulli, sostiene che un sapore possa essere influenzato dal piatto precedente, sottolineando l’importanza dell’ordine dei piatti e di come ogni elemento in un menù possa influenzare la percezione del successivo. Ogni assaggio prepara il palato per quello successivo. Perché a volte non si è neanche pronti ad un sapore se prima non abbiamo il giusto equilibrio in bocca. Alessandro Pietropaoli, chef di Campocori, serve un cocktail prima di iniziare la sua degustazione per “resettare il palato”. Il gusto non è esperienza isolata, ma un processo continuo, influenzato da ciò che lo precede. La provenienza non è solamente gustativa, come nel caso di Adrià e Pietropaoli, ma anche estetico-narrativa come in Bottura che con la sua celebre “Oops! Mi è caduta la crostata al limone”, un errore di partenza (da dove vengo) diventa un elemento estetico e narrativo: “l’errore è umano ed è bello”. Altre volte la provenienza influenza la sfera culturale, come in Cannavacciuolo che unisce nei suoi piatti nord e sud, parlando di origine gastronomica. Un piatto è un fatto affettivo, culturale e identitario. Il Teatro, come la cucina, non è solo presenza, ma provenienza. Ogni gesto, battuta o ingrediente ha un prima che ne condiziona il significato. Recitare significa sapere da dove si viene e come in un buon abbinamento: tutto dipende da ciò che c’è stato prima. Lo viviamo ogni giorno sotto il naso. Anzi, sotto la lingua.


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