Attualità

L’autocensura e il tifo uccidono il giornalismo

di Redazione -


Ne parliamo a bocce ferme, ma quando il ferro è ancora caldo per poterlo “modellare”. Sono due scivoloni che, sia pure giustificati dalla tensione della diretta, sono fuorvianti per il telespettatore. E bisogna riconoscere che di episodi come questi sono piene le cronache.

Per quanto riguarda il direttore del TG7, di una cosa siamo certi: se potesse riavvolgere il nastro di quella registrazione, la sua frase su Conte contro Salvini e Meloni  probabilmente l’avrebbe tagliata.  Ed è stato un bene che la conferenza stampa invece sia andata in onda nella sua completezza. Perché un Presidente del Consiglio che in diretta TV bacchetta con nome e cognome i suoi principali oppositori è “la Notizia”. 

E le notizie i giornalisti le debbono sempre dare.  Il guaio è che alcune volte questo non avviene. Perché?

Esclusa – tranne alcuni casi – l’eterocensura, il giornalista in determinate situazioni non sfugge alla tentazione, soprattutto in politica, di sentirsi al di sopra di tutto e di tutti. Tentazione meno presente nei giornali (anche grossi), di più nelle TV. Dove, però, si fa strada un altro pericolo: quello di “innamorarsi” o di essere fortemente critici di qualche esponente politico e delle sue tesi. A questo punto il racconto giornalistico viene falsato, l’obiettività va a farsi benedire e la cronaca diventa tifo. Un tempo esistevano i giornali di Partito (l’Unità, il Popolo, l’Avanti, per ricordarne i maggiori) dove si conoscevano bene le posizioni espresse dai rispettivi giornalisti: chi leggeva quei fogli sapeva cosa leggeva. Anzi si attendeva di leggere proprio quello. Quei giornali, con la crisi della politica e dell’editoria, hanno chiuso. Ma la politica non è restata  a guardare e così sono nati, accanto a giornali di lunga storia e considerati “indipendenti”, quelli cosiddetti di area: a destra e a sinistra. E con loro il “tifo da stadio”. Giornalisti di opposte visioni si confrontano duramente nei talk favorendo l’audience ma inevitabilmente a scapito dell’obiettività.

Ed è proprio nei talk che nasce e si afferma una nuova figura di giornalista: il giornalista-divo. Bello, simpatico, bravo ma… divo.

E’ il caso di Massimo Giletti, professionista di tutto rispetto, che la scorsa settimana si è lasciato andare, intervistando Giorgia Meloni, ad un “non eleggiamo un Presidente del Consiglio da anni”. Qualcuno direbbe “è il bello della diretta”. D’accordo, ma non tutti conoscono la Costituzione tanto da capire che  la frase è sbagliata. Anche perché Giorgia Meloni si è guardata bene dal correggerlo e anzi (visto che portava acqua al suo mulino) gli ha dato man forte alzando gli occhi al cielo con un laconico e sospirato “non lo dica a me”. Cosa deve pensare il telespettatore? 

Delle cose dette in quella trasmissione mi ha parlato, entusiasta, la mattina seguente il mio vecchio portiere al quale ho dovuto spiegare che il giornalista, forse nella foga della diretta, aveva preso una cantonata e che il capo del Governo, come il Presidente della Repubblica, non lo eleggono i cittadini. Ma è proprio in questo errore che si innerva il protagonismo del giornalista-conduttore che ci mette una toppa peggiore del buco. “Ma quale gaffe. Sono laureato in giurisprudenza (meno male che non ha detto legge: ndr) con 110 e lode e la Costituzione – dice un po’ presuntuosamente Giletti –  la conosco bene”. Per carità nessuna lezione: gli scivoloni, soprattutto nelle dirette possono capitare. Basta riconoscerli con umiltà. E per tornare al discorso di un giornalismo dove in questi anni si è fatto strada un tifo da stadio prendiamo ad esempio l’edizione  odierna di Libero e de Il Giornale, autorevoli fogli ma di area. Libero, ad esempio, “gongola” per un sondaggio di Antonio Noto secondo cui il 54% degli italiani non avrebbe approvato le “bacchettate” del Presidente del Consiglio a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Bene. Intanto il 54 per cento riguarda non gli italiani ma il campione oggetto del sondaggio, persone ovviamente anonime, come anonime sono le caratteristiche di tutti i sondaggi (e qui qualche dubbio potrebbe sorgere su quale “area politica” è stato effettuato).

E poi, diciamolo, il 46 per cento non è una percentuale da buttare, soprattutto di questi tempi. E che dire del Giornale, della famiglia Berlusconi, che con Alessandro Sallusti ricorda a Vittorio Colao una massima di Rino Formica: “la politica è sangue e merda”. Per cui, da “persona troppo a modo”, Colao rischia di andare sulle palle a tutti: “Da ieri – sostiene Sallusti – a tre quarti della politica e al 90% dei grandi burocrati che hanno le leve del comando, senza contare che i giornalisti l’aspettano al varco con il pugnale in mano”.

Ecco, i giornalisti! Ma quali? Quelli “tifosi”?

La verità è che se il poker d’assi Conte-Borrelli-Arcuri-Colao riuscisse a vincere la sfida del coronavirus, l’opposizione di destra avrebbe perso la sua battaglia, si arriverebbe alla fine naturale della legislatura e per i Salvini e le Meloni non ci sarebbe trippa per gatti.

Con grande disappunto di quei giornalisti, Sallusti compreso, che fanno il tifo per i due leader dei partiti destrorsi.

PdA

 


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