I rispettivi eserciti continuano a combattere sui campi di battaglia e le soluzioni diplomatiche delle crisi che li vedono coinvolti appaiono lontane
Il 24 febbraio 2022 è iniziata l’Operazione Militare Speciale (OMS) della Russia sul territorio dell’Ucraina. Il 9 ottobre 2023, due giorni dopo l’attacco di Hamas, Israele ha ammassato oltre 100mila soldati vicino ai confini della Striscia di Gaza, richiamato più di 300mila riservisti e annunciato l’“assedio totale” dell’enclave palestinese. Entrambe le offensive sono state più volte definite “escalation irresponsabili che minacciano la pace e la sicurezza internazionale” e “flagranti violazioni della sovranità dei Paesi aggrediti, del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”. A parole, i pesi e le misure sono gli stessi. Nella pratica, invece, sono molto diversi. Il presidente russo Vladimir Putin e il premier israeliano Benjamin Netanyahu sono stati bollati come “autocrati” e “criminali di guerra”.
Convergenze e divergenze, apparenti e sostanziali
Putin e Netanyahu sono accomunati dai mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale. Sulla testa di Putin ne pende uno dal marzo 2023 perché sarebbe “responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia”. Su quella di Netanyahu incombe la stessa spada di Damocle dal novembre 2024 per “crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza”. I due leader continuano tuttavia a incontrare capi di Stato e di governo e partecipano ai vertici internazionali in cui è richiesta la loro presenza. I rispettivi eserciti continuano a combattere sui campi di battaglia e le soluzioni diplomatiche delle crisi che li vedono coinvolti appaiono lontane.
Gli alleati di Putin e Netanyahu
Il capo del Cremlino ha due interlocutori a livello negoziale. Uno affidabile, la Cina, e un altro quasi totalmente inaffidabile, gli Stati Uniti, che ondeggiano tra dialogo e sanzioni, bilaterali e missili. Il primo ministro israeliano può contare sul sostegno totale degli Usa e dei loro vassalli e soprattutto sull’inerzia di gran parte dell’Occidente, fermo ai proclami e alle schermaglie inconcludenti. Qualche fatto nuovo si sta registrando, ma al momento sembra ancora poco consistente.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nella giornata di ieri, ha adottato la “Dichiarazione di New York”, il testo che mira a rilanciare la prospettiva della soluzione a due Stati tra Israele e Palestina, escludendo ogni coinvolgimento di Hamas. La risoluzione, avanzata da Francia e Arabia Saudita, è stata approvata con 142 voti a favore, 10 contrari – tra cui Israele e il suo principale sponsor, gli Stati Uniti – e 12 astensioni. Il documento condanna esplicitamente il movimento islamico di resistenza e chiede che l’organizzazione deponga le armi.
L’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon, è partito subito all’attacco: “Questa è una proposta vuota che ignora completamente la realtà. Questa è una dichiarazione unilaterale che abbraccia le menzogne dei nostri nemici e fornisce sostegno ad Hamas”.
L’esecutivo israeliano punta molto sulla propaganda. Prima dell’attacco israeliano che ha preso di mira i vertici di Hamas a Doha, Netanyahu stava portando avanti “un’intensa campagna diplomatica in Occidente, con particolare attenzione agli Stati Uniti, per screditare il Qatar”. A riferirlo sono state fonti politiche di Tel Aviv al quotidiano panarabo saudita Asharq Al-Awsat, secondo le quali l’obiettivo era “preparare il terreno ad un’operazione su vasta scala” contro l’emirato “dipinto persino come parte integrante dell’asse iraniano”.
Obiettivi e tempi
La differenza più grande è costituita dagli obiettivi. Il ministero della Difesa in Russia ha rivendicato l’occupazione degli insediamenti di Khorosheye, Sosnovka e Novopetrovskoye, nella regione di Dnipropetrovsk. Una volta messe in sicurezza le popolazioni russofone del Donbass e scongiurato il pericolo dell’adesione di Kiev alla Nato, è presumibile che Vladimir Putin possa decidere di mettere fine alle ostilità, guerrafondai europei permettendo. Per Benjamin Netanyahu, al contrario, la questione è più complessa e si chiama “Grande Israele”, uno Stato ebraico dal fiume al mare, che vuol dire fine guerra mai.