Editoriale

Le ragioni del premierato

di Adolfo Spezzaferro -


La riforma del premierato riguarda il futuro (migliore) dell’Italia. Non è semplicemente un punto cardine del programma di governo. Punta ad “evitare che gli italiani si ritrovino, come dopo le elezioni del 2018, con un maggioranza formata da Pd, M5S, Lega e Forza Italia tutti insieme con un presidente del Consiglio non scelto dagli elettori”. Così il senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni sintetizza l’utilità evidente della riforma al convegno organizzato da FdI“Obiettivo premierato, al centro volontà popolare e stabilità dei governi”. Al centro, l’epocale riforma costituzionale, che peraltro ci metterebbe in ottima luce a livello internazionale. Stabilità che di certo è pure conveniente. Secondo uno studio citato al convegno, in dieci anni “l’instabilità politica è costata all’Italia 265 miliardi di euro, nonché 300 mila posti di lavoro all’anno, dunque tre milioni in dieci anni”. Come ha voluto ribadire Marco Lisei, capogruppo di FdI in commissione Affari Costituzionali al Senato, “il premierato per noi è la madre di tutte le riforme. Un provvedimento fortemente voluto da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia. Si basa su obiettivi chiari: consentire ai cittadini di scegliere il premier, ridare credibilità alle scelte dei cittadini, consolidare la certezza per gli italiani su chi li guiderà. Basta, quindi, governi tecnici e trasformisti”. Dal canto suo, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani non ha nascosto di essere “un po’ deluso dal riflesso condizionato dei nostri colleghi dell’opposizione: Meloni volle un confronto prima di partire con la riforma, chiedendo di ragionare su una riforma di sistema che serve all’Italia, non al centrodestra. Abbiamo ricevuto risposte un po’ imbarazzate, che erano tentativi di dire di no, ma è una battaglia ostruzionistica, senza peraltro proporre nulla di concreto, che non porta da nessuna parte. Ma noi andremo avanti per la nostra strada, perché se un domani andrà al governo il centrosinistra – e io farò di tutto perché questo non accada – questa riforma servirà anche al centrosinistra”. Tra le principali obiezioni mosse contro la riforma, quella sulla presunta limitazione dei poteri del presidente della Repubblica. A tal proposito al convegno è stato fatto presente da Felice Giuffrè, giurista e consigliere del Csm, che invece tali poteri si rafforzerebbero. Per dare forza alla sua posizione, Giuffrè ha citato il politologo Gianfranco Pasquino, “che già dal 1986 invocava una riforma in tal senso, con il saggio ‘Restituire lo scettro al principe, ovvero al popolo”. Il consigliere giuridico della Meloni, Francesco Saverio Marini, ha fatto presente che “il modello che si è provato ad introdurre risponde a una esigenza condivisa da tutte le forze politiche: la stabilità. Questa riforma non è un compromesso. Ma come tutte le riforme è il frutto di un confronto, quindi di un compromesso che non ha una accezione negativa”. Perché non è un accordo al ribasso ma piuttosto punta in alto. Il presidente dei deputati di FdI, Tommaso Foti si rivolto agli “smemorati” della sinistra “che hanno già dimenticato la Bicamerale di D’Alema”, ma anche a chi contesta la riforma perché non prevede il sistema elettorale. Foti ha precisato infatti che “non si è mai visto pensare un sistema elettorale senza sapere prima qual è la norma costituzionale che regge quel sistema. È evidente che un minuto dopo che la riforma costituzionale sarà stata approvata si dovrà pensare alla legge elettorale ma non si può pensare alla legge elettorale prima, anche perché – ha chiarito Foti – gli istituti possono portare a varie leggi elettorali”. Non fa una piega.


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