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Le tragedie del mare e quegli insegnamenti che non sappiamo capire

di Redazione -

ALLEANZA VERDI E SINISTRA FLASH MOB PER PROTESTARE CONTRO LA STRAGE DEI MIGRANTI IN CALABRIA MANI VERNICIATE VERNICE ROSSA FOTOGRAFIA INSANGUINATE RICOPERTE DI SANGUE


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

L’ennesima tragedia umana che si è consumata sulle spiagge di Cutro sta seguendo il solito copione, per cui alle dichiarazioni di rito – dolore, indignazione e promesse – stanno facendo seguito le prevedibili dichiarazioni d’intenti, destinate, come finora è sempre accaduto, a restare lettera morta. Niente di nuovo sul fronte meridionale, si potrebbe dire, anche se in quel caso si parlava di una tragedia diversa da quella che, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ha provocato 26 mila morti negli ultimi dieci anni in quel cimitero liquido che è diventato il Mediterraneo. E niente di nuovo neppure nella logica politica con cui viene affrontato il fenomeno, che viene costantemente inquadrato nella prospettiva di un’emergenza da affrontare con misure eccezionali e straordinarie. Quando, invece, il carattere strutturale delle migrazioni è ormai da tempo un fenomeno riconosciuto come intrecciato ai processi di globalizzazione e alle crescenti interdipendenze e legami transnazionali. Per questo è più che mai necessario uscire dalla logica dell’emergenza e affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli e non per servirsene da granaio elettorale.
E per farlo occorre distinguere. I migranti – quelli morti e quelli sopravvissuti – naufragati a Cutro provenivano dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Somalia, dal Pakistan, paesi devastati dalla violenza e da governi criminali che perpetrano sistematiche atrocità contro i loro stessi cittadini. A chi dice: “restatavene a casa vostra” perché “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli” andrebbe risposto che le persone in fuga rischiano la vita proprio perché una casa non ce l’hanno più e cercano di lasciarsi alle spalle una vita senza prospettive e senza speranze. Il numero di rifugiati senza casa nel mondo supera i 100 milioni e l’unica casa possibile in cui possono sperare è quella che possiamo – che dovremmo – offrire noi. Ai rifugiati, come andrebbero considerati i sopravvissuti al naufragio, va riconosciuto il diritto all’asilo come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione Europa e, non andrebbe dimenticato, dalla Costituzione italiana che, all’art. 10, terzo comma, riconosce l’asilo come un diritto fondamentale della persona che fugge da una situazione nella quale le è impedito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” stessa, che opera da parametro di riferimento per queste violazioni. Diverso è il discorso, strutturale appunto e non emergenziale, che andrebbe fatto nel campo delle politiche migratorie relative ai cosiddetti “migranti economici”. In effetti, la distinzione tra rifugiati e migranti è piuttosto controversa perché gli ostacoli all’emigrazione per ragioni economiche porta non pochi migranti a inoltrare una richiesta d’asilo e a produrre flussi misti, di non sempre facile collocazione tra le due categorie. E tuttavia, mai come in questo caso le distinzioni contano: il rischio, altrimenti, è che chi vuole accogliere tutti finisca per portare (certo del tutto involontariamente) acqua al mulino di chi non vuole accogliere nessuno.
Occorre perciò distinguere anche tra politiche di salvataggio e politiche di accoglienza. Gli esseri umani vanno salvati tutti, a prescindere. E questo significa rinunciare a una politica di respingimenti ed espulsioni indiscriminati, perché – oltre a essere in contrasto con la legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 19 (Divieti di espulsione e di respingimento) – ciò equivale a gettare i migranti nelle braccia dei cosiddetti “scafisti” e costringerli ad affrontare i rischi di un viaggio che spesso si conclude con la morte. Perciò, invece di inasprire la disciplina del soccorso in mare al punto da rendere quasi impossibile per le navi delle Ong soccorrere chi si trova in situazioni di estremo pericolo, nonostante l’art. 98 della Convenzione della Nazioni Unite sui diritti del mare, sottoscritta il 10 dicembre 1982 a Montego Bay, in Giamaica, imponga l’obbligo di prestare soccorso “a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”, si tratterebbe di mettere in atto la soluzione mille volte evocata e sempre disattesa: riaprire i canali di immigrazione regolari.

Ne guadagnerebbero i nostri governi, che da questa scelta ricaverebbero i titoli di legittimazione morale capaci di giustificare il contrasto all’immigrazione irregolare e la lotta contro una gestione dei flussi migratori lasciata nelle mani delle mafie transnazionali. Ne guadagnerebbe la nostra economia, poiché sono solo i migranti a rendersi disponibili per colmare i vuoti nei settori del lavoro definiti delle cinque “P”: pesanti, poco pagati, pericolosi, precari, penalizzati socialmente. Ne guadagnerebbero i paesi d’origine, che sarebbero motivati a controllare le migrazioni irregolari se gli accordi tra paesi d’origine e paese di provenienza fossero stipulati in condizioni di eguale dignità e che potrebbero trarre vantaggio dalle rimesse, ossia dal denaro che gli emigranti fanno pervenire ai familiari e parenti in patria. Solo così potrebbe essere superata la distinzione tra rifugiati, una definizione che potrebbe essere riservata solo alla minoranza cui spetta il diritto d’asilo, e migranti economici, che storicamente sono sempre stati la grande maggioranza dei migranti. E, da ultimo, potrebbe essere superato anche l’approccio di tipo eccezionale ed emergenziale, riservandolo esclusivamente a coloro che ne hanno titolo e investendo, ovviamente su scala europea, le risorse disponibili su progetti volti a evitare che l’integrazione senza accoglienza possa funzionare meglio, come è accaduto finora, dell’accoglienza senza integrazione.

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