Editoriale

L’EDITORIALE – Tertium non mandatur: a che serve il terzo mandato dei governatori…

di Tommaso Cerno -


Tertium non mandatur. A che serve il terzo mandato dei governatori, se poi Vincenzo De Luca e Michele Emiliano si barricano nei loro uffici invocando lo stato centralista, quello che ha reso il Sud un paziente terminale per decenni, e dichiarano che le Regioni che vorrebbero governare non hanno la possibilità di esistere senza mamma Roma e il Palazzo della politica?

Io non credo che De Luca e Emiliano pensino ciò che dicono. Come non penso che la riforma Calderoli sia la migliore possibile. Ma nel Paese dello scontro a fuoco, del tutti contro tutti, della politicizzazione estrema del giudizio è ovvio che una riforma targata Lega (più Zaia che Salvini, fra l’altro) non potrà fare altro che scatenare il fuoco del Pd e del M5s. E’ la ragione per cui questo Paese è fermo da anni. E la ragione per cui molti italiani se ne stanno a casa il giorno delle elezioni. Se l’Italia ha un problema non è certo l’autonomia differenziata. Casomai il fatto che ogni riforma che ha provato a decentrare alcune decisioni e alcuni poteri ha finito per moltiplicare i livelli decisionali e aprire il contenzioso fra amministrazioni pubbliche. Noi siamo uno Stato che non ha deciso cosa essere.

Siamo centralisti perché Roma controlla tutto. Siamo regionalisti perché abbiamo trasferito poteri e soldi alle Regioni. Siamo prefettizi perché dentro lo Stato e le Regioni, anche dopo l’abolizione delle province politiche, tutto il sistema di rappresentanza dello Stato sui territori è organizzato a quel livello: prefetture, questure, tribunali, camere di commercio, motorizzazione, Croce rossa, protezione civile e chi più ne ha più ne metta. Siamo tre Stati in uno, dove tutti intervengono in tutto o in parte nello stesso processo decisionale. Questo ci rende più lenti e più costosi degli Stati centralisti veri, di quelli federalisti veri e di quelli con forti autonomie locali. Ci rende uni e trini, come il nostro dio, in un momento in cui invece servirebbe un Parlamento capace di discutere, anche con distanze politiche e culturali, su chi fa cosa. E su come fare a non sovrapporsi. Perché sovrapporsi allunga i tempi e aumenta i costi.

E invece che succede? Che la Lega porta a casa la riforma scritta nel suo Dna dall’inizio degli anni ’90. Un primo voto, più simbolico che pratico. Su cui un Paese normale aprirebbe un grande dibattito di opportunità. Forte del fatto che Fratelli d’Italia, il partito di maggioranza relativa, non è poi così in sintonia né con quella riforma né con quella parola. E dovrebbe farlo la sinistra per prima, proprio se è convinta come ha detto qualche big, che il premierato della Meloni e l’autonomia di Salvini “si tengano”, come si dice in gergo.

A condizioni date, la strada per usare questa riforma per rendere il Paese più omogeneo e non più diviso ci sarebbe tutta. Così come per entrare nel merito delle riforme costituzionali promesse dal centrodestra, perché anche i sassi sanno che questo sistema è ormai troppo lento e farraginoso, sottoposto a ricatti di piccoli gruppi di potere e soprattutto capace di creare tre barra quattro governi diversi in una legislatura, per cui ha stancato ed è inadatto alla complessità del momento, ma sempre quei sassi sanno anche che in Italia serve un sistema bilanciato, fatto di compensazioni, capace di dare la percezione che la velocità della decisione è pari alla sua stabilità democratica. Ed è questo che mi aspettavo dai due governatori forti del Pd al Sud. Non certo il solito piagnisteo del Meridione ferito e derubato. Che, con tutto il rispetto, ha stancato soprattutto i cittadini del Sud.


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