Tra l’incubo delle lettere e la speranza di un accordo. Il giorno più lungo è arrivato. E come è giunto, è scivolato via. Il 9 luglio, temuto come se non peggio del 21 dicembre 2012 ai tempi in cui si credeva alle profezie dei maya, è passato. Certo, la nuova deadline è il 1° agosto, per carità. Sicuro, si sta lavorando all’accordo e Trump ha bisogno di chiuderne qualcuno in più dal momento che, a fine aprile scorso, aveva promesso 200 intese commerciali ottenendone, fino a ieri sera, appena tre: Regno Unito, Vietnam e Cina. Fatto che ha dato alla “perfida” Cnn, l’agio di spettinargli il ciuffo. Dice il Wall Street Journal che c’è ben altro dietro la scelta della Casa Bianca di soprassedere rispetto alla data prevista. C’era da concludere e definire gli accordi, al di là di cosa ne possano scrivere i giornalisti americani. E, su tutte, le intese con India e Unione europea sono state individuate come quelle tra le più strategiche. Quindi il segretario al Commercio Scott Bessent avrebbe sussurrato al presidente di avere ancora un po’ di pazienza. E, intanto, di usare le lettere per pungolare i riottosi, per tenere alta l’attenzione e a mostrare che lui, Trump, non scherza affatto.
Già nel pomeriggio, il portavoce della Commissione Ue Olof Gill aveva ribadito ai giornalisti che nessuno s’aspettava la scampanellata del postino. Il commissario Maros Sefcovic, poi, aveva spiegato al Parlamento europeo che l’accordo con gli Usa sarebbe stato imminente, che l’obiettivo (di tutti, non solo dell’Ue) era dall’inizio quello di “ripristinare la prevedibilità”. E ha riferito della speranza di “raggiungere risultati soddisfacenti potenzialmente anche nei prossimi giorni” dando così alle relazioni Usa-Ue la possibilità di ripartire da “un nuovo inizio” basato su “un quadro” stabile sul quale costruire poi “un futuro accordo commerciale”.
Mentre si parlava ancora di accordo, ieri erano attese sette lettere, ne sono arrivate sei. Inizialmente nel mirino della Casa Bianca son finite le Filippine, baluardo storico americano nel Sud-est asiatico. Con Manila, The Don ci è andato più morbido: “solo” il 20% di dazi, meno di quanto toccato a Giappone e Corea del Sud. Peggio, invece, è andata a Libia, Iraq e Algeria che dovranno fare i conti con tariffe al 30%. Una mossa, come un’altra, per difendere i petrolieri americani messi in ginocchio dall’ennesimo aumento della produzione disposto dall’Opec+ nei giorni scorsi. Per Moldavia e Brunei, i dazi sono nella misura del 25%. Dopo un po’ è spuntata anche la settima lettera. Indirizzata al governo di Sri Jayawardenapura Kotte, già nota come Colombo quando lo Sri Lanka era ancora Ceylon. Per l’isola, un’altra stangata: 30 per cento. E sotto a chi tocca.