LIBERALMENTE CORRETTO – Francesco non ha cambiato i pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa
Per quanto “rivoluzionario” possa essere stato, più d’immagine che di sostanza, più nella rappresentazione mediatica che nel contenuto teologico del suo Magistero, Papa Francesco non voleva e non poteva modificare i pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa. Le due encicliche, Fratelli tutti e Laudato sì, adottano un linguaggio rinnovato, con accenti per certi versi inediti, ma non destabilizzano le linee guida della DSC. Il punto nodale, sul quale da sempre verte il dibattito in seno alla Chiesa, riguarda la relazione tra la proprietà privata e la destinazione universale dei beni. Entrambi i principi sono basilari e irrinunciabili, espressione diretta dell’insegnamento di Cristo.
Si potrebbero annoverare tra i principi “non negoziabili”, se ciò non rischiasse di mettere in ombra la necessità ineludibile di una loro compensazione, la quale comporta ovviamente la possibilità di un parziale sacrificio dell’uno o dell’altro. I due principi devono coesistere e la ricerca di una loro compatibilità è il problema più grande. Ebbene, proprio per coesistere, la “destinazione” non può essere intesa come “proprietà”, altrimenti l’universalità si rivela incompatibile con la privatezza. Il problema diventa allora quello di individuare il migliore assetto ordinamentale, che possa estendere il più possibile la proprietà privata dei consociati. E dunque Il fine da raggiungere è sintetizzato dallo slogan “non tutti proletari, ma tutti proprietari”, in contrapposto alla dottrina marxista.
Al contempo, se la destinazione non può essere intesa come proprietà, deve essere intesa inevitabilmente come godimento, uso, vantaggio. Ciascuno deve poter trarre vantaggio, anche indiretto e riflesso, dalla proprietà privata, sua ma anche altrui, e in questo vantaggio di tutti e di ciascuno viene a risiedere la destinazione universale dei beni; s’intende quella imperfetta e possibile su questa terra, non quella assoluta del mondo dei concetti.
La domanda conseguente è quale sia il meccanismo sociale che consente di realizzare al meglio siffatta destinazione: l’ordine spontaneo del mercato libero o l’ordine autoritario, derivante dalla pianificazione centralistica di Stato? Nel mercato, ogni operatore incontra il suo antagonista che ne limita gli appetiti. Deve soddisfare l’esigenza altrui, per soddisfare la propria. I contraenti devono trovare un punto di incontro delle rispettive pretese, in assenza del quale l’operazione di mercato non può aver luogo, cosicché devono acquietarsi a una necessaria “compensazione” che realizza l’equilibrio degli interessi. Per questa ragione, il libero mercato è la sede naturale della coesistenza degli interessi contrapposti; la necessaria “cointeressenza”, ovvero la compartecipazione negli interessi altrui, fa sì che i beni immessi nel mercato siano destinati al vantaggio altrui, oltre che al proprio.
Il mercato, in altri termini, è lo strumento basilare della “socializzazione” dei beni di proprietà privata; pertanto, non solo non si oppone alla destinazione universale dei beni, ma ne costituisce perfino il mezzo necessario. E dunque la Dottrina Sociale della Chiesa, fondata sui due pilastri in parola, che solo gli ingenui possono ritenere antitetici, postula, per implicazione necessaria, un’opzione politica in favore dell’economia di mercato, seppure ovviamente le opzioni politiche esulino dall’ambito specifico della dottrina e possano dedursi solo per implicito. D’altronde, è innegabile che il diritto naturale di godere dei frutti del proprio lavoro e capitalizzarli si traduce necessariamente in diritto di proprietà; mentre lo jus excludendi, insito nella proprietà privata, costituisce lo scudo più sicuro ed efficace contro le ingerenze esterne, a cominciare da quelle dei poteri pubblici; sicché il diritto di proprietà recinge il territorio della privacy e, proteggendo la sfera intima dell’uomo, asseconda la realizzazione della personalità di ciascuno. Come tutti i diritti, incontra le necessarie imitazioni (anche il diritto di parola non si estende fino al punto di legittimare la diffamazione). Ma è stato un errore definirlo “secondario” (nell’enciclica Fratelli tutti), sottovalutando, per esempio, lo storico insegnamento della scuola teologica di Salamanca.
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