Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO -Gli aiuti che non aiutano

di Redazione -


di Michele Gelardi

I fautori dell’interventismo dello Stato in ogni campo della vita associata e perfino in quella privata ne sottovalutano le implicazioni perniciose, tra le quali il rallentamento dello sviluppo economico e l’incremento dell’invidia sociale. L’intervento della res publica è vincolato al rispetto della par condicio civium. Quando la pubblica amministrazione si limita a fare ciò che i soggetti privati non possono fare da sé, il canone egualitaristico non turba le relazioni sociali; quando invece lo Stato intende “aiutare” i privati a svolgere i loro compiti, si insinua nel tessuto sociale un veleno latente, perché il criterio della conformità cartolare diventa la chiave d’accesso all’”aiuto” di Stato. Ciò altera le condizioni della competizione economica e sociale, negata in radice dagli utopisti, ma ragionevolmente riconosciuta inevitabile dal buon senso comune, posto che ogni uomo, per sua natura, ambisce a conseguire un determinato successo in seno al consorzio sociale. Con l’invasione dello Stato-certificatore-autorizzatore la competizione si volge al basso, anziché all’alto. La libera concorrenza di mercato premia l’offerta che si adegua alla domanda, cosicché il consumatore è il vero dominus alla cui volontà deve obbedire il produttore. Il successo di quest’ultimo è legato alla sua capacità di offrire un prodotto migliore, rispetto a quello dei suoi competitors. Insomma, il dominio del consumatore indirizza gli sforzi produttivi verso il meglio. Viceversa, quando l’accesso e la permanenza nel mercato sono condizionati da un atto amministrativo, l’obiettivo d’impresa diventa la conquista dell’atto, prim’ancora che il miglioramento del prodotto. Questa dinamica di mercato, falsata e drogata dall’intervento burocratico, è stata ben descritta da Caprotti nel suo famoso libro “Falce e carrello”. L’offerta di “Esselunga”, molto apprezzata dai consumatori, è stata penalizzata dall’autorità politica a vantaggio della catena delle “cooperative rosse”. Supponiamo pure, ma Caprotti lo nega, che quelle cooperative offrissero un prodotto equivalente; sempre e comunque l’intervento pubblico di favore avrebbe comportato un danno per l’intera società, in ragione delle risorse umane sottratte alla ricerca del miglioramento del prodotto. È di tutta evidenza, infatti, che l’ingegno e le energie umane, applicate alla conquista dell’atto amministrativo, non possono al contempo essere impiegate per il miglioramento del prodotto, cosicché il mercato “protetto” dall’amministrazione pubblica rallenta lo sviluppo economico, indirizzando la competizione verso il “certificato”, piuttosto che verso il consumatore. C’è dunque motivo di stupirsi, se l’Italia soffocata dalla burocrazia di Stato perde competitività, a tutto vantaggio di economie meno “protette”? Al contempo la corsa al certificato avvelena i rapporti umani, facendo prevalere l’invidia distruttiva sulla spinta emulativa. Come la libera concorrenza è funzionale al miglioramento del prodotto, così la sana competizione sociale è funzionale al miglioramento delle professionalità della persona. Al contrario, la “droga” del certificato si rivela disfunzionale. La pubblica amministrazione può discriminare i competitors, solo in base ai requisiti “oggettivi” documentati dal certificato, sicché nei campi del suo intervento, la competizione non può che indirizzarsi verso la conquista dell’agognato certificato. Ognuno dei competitors desidera esserne il possessore monopolistico; vuole primeggiare, non già innalzando la propria professionalità, bensì impedendo agli altri di avere il medesimo certificato. Per questa via, l’invasività dello Stato nei campi un tempo regolati dallo jus privatorum, porta con sé inevitabilmente il veleno dell’invidia distruttiva, che volge al basso la competizione sociale.


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