Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – L’impegno con privilegio di disimpegno della pubblica amministrazione

di Michele Gelardi -


Che ne direste di un privato, il quale, avendo contratto un’obbligazione di 100 e avendo corrisposto solo 50 nell’arco dell’anno, il 31 dicembre decidesse unilateralmente di interrompere il rapporto e rinviare a “data da destinarsi” l’adempimento della rimanente parte della prestazione? Lo considerereste un furbastro o un prepotente? Qualunque sia la risposta, certo è che evitereste in avvenire di contrattare con lui. Ma in concreto non è facile, dal momento che il furbastro/prepotente, absit iniuria verbis, si chiama “Stato italiano” (nell’accezione lata, comprensiva di tutte le amministrazioni pubbliche), che ogni 31 dicembre cancella dai suoi impegni le somme (non spese) già “impegnate”, ossia destinate all’adempimento delle obbligazioni contratte. Insomma (parte di) ciò che è impegnato quest’anno non risulta più impegnato per l’anno successivo. Che bella sorta di impegno non impegnante! Ovviamente il privilegio del disimpegno, unilaterale e non motivato, appartiene solo alla maestà della cosa pubblica, a conferma del fatto che in Italia lo “Stato di diritto”, basato sulla paritaria condizione dell’autorità pubblica e del cittadino privato, rimane un miraggio.
La grande trovata è stata introdotta, con decreto legislativo 118/2011, nell’intendimento di porre un freno all’eccesso di spesa pubblica. Ottima idea. Purtroppo di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Bisogna distinguere la spesa per investimento da quella corrente, in massima parte assorbita dagli stipendi del personale. La prima coinvolge necessariamente il terzo di buona fede, che programma l’attività d’impresa sulla base delle legittime aspettative, create dall’impegno di spesa dell’amministrazione pubblica. Il rinvio sine die della partita già immessa in bilancio ha, dunque, un duplice effetto pregiudizievole: rallenta, nella migliore delle ipotesi, o paralizza, nella peggiore, l’investimento pubblico; mette in crisi i programmi aziendali dell’impresa coinvolta, creando i presupposti del dissesto economico. L’Italia si avvantaggia della geniale trovata, sotto entrambi i profili: gli investimenti infrastrutturali languono e le imprese falliscono.
Per avere il quadro completo della palude Stigia, dobbiamo aggiungere la paura della firma del burocrate di vertice e il vincolo dei capitoli di spesa eccessivamente ristretti (già noti ai nostri lettori). La combinazione di questi fattori è la vera ragione per la quale l’Italia non riesce, per esempio, a utilizzare i fondi europei. Siamo i benefattori dell’Unione europea, i gonzi applauditi da tutti gli altri partners, i “supercontribuenti” prodighi, inclini a dare e incapaci di prendere. Tanta sciocca “generosità” non è un fatto contingente; ha radici profonde e strutturali. La burocrazia degli altri Paesi, che riesce nell’impresa di utilizzare i fondi europei, non è composta da grandi scienziati e la nostra non è composta da deficienti. Differiscono le regole della spesa. In Italia sono stati portati ai limiti estremi il principio della diffidenza e quello della prevenzione. In virtù del primo, qualunque movimento di denaro è sospetto. Ne risultano inceppati anche i meccanismi di spesa dell’apparato pubblico, giacché i burocrati sono innalzati al rango di organi politici con poteri di firma, però al contempo sono “sorvegliati speciali”, i quali devono comunicare a priori ogni minimo movimento e per di più, non appena si muovono, devono tornare indietro e compiere di nuovo gli stessi passi. In virtù del secondo principio, è prioritario impedire la “corruzione”; il resto poco importa, fiat iustitia et pereat mundus. In tutto il mondo ci si accontenta di reprimere la corruzione; qui si insegue il sogno utopistico di eliminarne la radice. E poiché la corruzione postula un movimento di denaro, quanto più si elimina il secondo, tanto più si impedisce la prima. Elementare Watson! Peccato poi che gli utopisti siano i primi a lamentarsi degli effetti della loro utopia.


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