L’incognita armi nucleari e la sicurezza nella regione
L’incognita armi nucleari e la sicurezza nella regione
Mentre gli occhi del mondo sono puntati su Gaza, la diplomazia in queste ore si sta muovendo su un altro fronte caldo del Medio Oriente: il programma nucleare iraniano. Sabato sarà l’Oman, dopo gli incontri di Roma, a ospitare il sesto round di colloqui tra l’amministrazione Trump e le autorità di Teheran. L’inviato speciale Steve Witkoff, già impegnato nella mediazione a Gaza, incontrerà a Muscat il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.
Minacce di interventi militari e ritorsioni, come di consueto, stanno costellando le ore che precedono l’incontro. Seguire le dichiarazioni delle parti in causa fa comprendere come gli esiti di questo sesto round di colloqui siano tutt’altro che prevedibili. Nel caso di un fallimento, l’Iran ha ventilato la possibilità di colpire le basi statunitensi in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno risposto ritirando parte del personale diplomatico dalla regione.
I network americani NBC e CBS hanno riportato voci di ufficiali statunitensi, secondo le quali in questi giorni Israele si starebbe preparando a un attacco preventivo agli impianti nucleari in Iran. Infine, Reuters, incalzando, ha pubblicato le rivelazioni di un alto ufficiale iraniano: un ‘amico’ regionale del suo Paese li avrebbe allertati in merito a un imminente blitz israeliano.
La tensione sul campo non è certo volatile. L’incuria nella gestione dei materiali esplosivi in Iran ha fatto registrare un picco negli ultimi mesi. Restano ancora ignote le dinamiche dell’esplosione che mercoledì ha distrutto un impianto petrolchimico nella città iraniana di Bandar Deyr, nel Golfo Persico. L’episodio ricalca i due incidenti avvenuti in aprile nel porto commerciale di Shahid Rajae e nell’impianto chimico di Isfahan, andati distrutti in analoghe esplosioni. All’epoca, una società privata di consulenza sui rischi marittimi, la Ambrey Intelligence, aveva rivelato che a provocare l’esplosione nel porto di Shahid Rajae sarebbero stati alcuni container di combustibile solido destinato a missili balistici. Una fonte anonima vicina alle Guardie Rivoluzionarie Islamiche iraniane aveva confermato la versione al New York Times. Le autorità di Teheran, che non hanno mai commentato gli incidenti, hanno aperto un’inchiesta su cui al momento non hanno fornito ulteriori aggiornamenti.
Nel mirino degli ufficiali iraniani, a poche ore dall’incontro con Witkoff in Oman, c’è anche la diplomazia europea. Lo stesso ministro degli Esteri Seyed Abbas Araqchi ha promesso dure reazioni nei confronti di Francia e Germania, che, insieme alla Gran Bretagna, si preparano ad approvare una risoluzione presso l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomic,a allo scopo di reintrodurre le sanzioni all’Iran. La risoluzione scatterebbe nel caso Teheran non dovesse interrompere l’arricchimento dell’uranio al 60%, una quantità superiore a quella destinata agli usi civili. Secondo gli esperti dell’Agenzia, la percentuale di arricchimento attuale consentirebbe a Teheran di raggiungere in breve un ordigno nucleare.
Il ruolo dell’Europa è sempre stato rilevante nelle mediazioni sul nucleare tra Stati Uniti e Teheran, in corso ormai da tre decenni. Non sono mancate negli anni le polemiche e i punti oscuri. A sollevarle sono state le inchieste di alcuni magistrati italiani che hanno dimostrato come i materiali destinati all’Iraq e all’Iran passassero anche dal vecchio continente. Come quando nel 1983 l’allora magistrato Carlo Palermo, due anni prima dell’attentato a Pizzolungo, al quale riuscii a sopravvivere, in un’operazione condotta a Roma con gli Uffici della Criminalpol all’Eur, sequestrò migliaia di documenti e telex che testimoniavano nero su bianco consegne di materiali nucleari all’Iraq e all’Iran. O quella del magistrato Francesco Neri, che alla vigilia della sua perquisizione della centrale nucleare di Bosco Marengo per verifiche sul contenuto di alcune navi a perdere, fu costretto a chiudere bruscamente l’inchiesta in seguito alla morte del suo braccio destro nelle indagini, il capitano della Marina Militare Natale De Grazia.
Sono passati oltre 50 anni dalle prime coraggiose inchieste giudiziarie, tutte italiane, che hanno rivelato le rotte insospettabili dei traffici nucleari diretti all’Iran. Decine e decine di colloqui sono già avvenuti tra le controparti. Ogni incontro continua ad essere vissuto come quello decisivo per fermare la produzione del fatidico ordigno. Ecco cosa ha dichiarato lo stesso Carlo Palermo in un’intervista a me rilasciata nel 2018: “Tali operazioni (di consegne di materiali nucleari all’Iran n.d.a), mi spiegò il principale indiziato dell’epoca, avvengono non solo per scopi di lucro – ovvero per riscuotere tangenti, ma anche per motivi di spionaggio. Ossia per scoprire chi è interessato a venire in possesso di determinati armamenti. E, infine, per il motivo più terribile: quello di precostituire prove utili, poi, ad accusare i destinatari di interventi militari”. Che sia vera o no l’ipotesi dell’ex magistrato, la questione del nucleare iraniano a distanza di decenni non sembra essere ancora arrivata a un punto fermo.
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