Cronaca

L’incontro per Emanuela

di Rita Cavallaro -


Un lungo incontro, segno che davvero può essere la volta buona per arrivare, dopo quarant’anni, alla verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana di 15 anni svanita nel nulla a Roma il 22 giugno 1983. Ieri, infatti, il fratello Pietro Orlandi, accompagnato dal suo avvocato Laura Sgrò, è stato ricevuto dal Promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, che coordina l’inchiesta sul caso, aperta per la prima volta tra le mura vaticane da quando Emanuela è scomparsa. Che sulla vicenda potrebbe esserci presto una svolta lo dimostrano non solo l’apertura del fascicolo e la convocazione di Pietro, il quale aspettava questo momento per rivelare alcune circostanze degne di approfondimenti investigativi, fare alcuni nomi e contestualizzare i messaggi via chat tra due prelati su cellulari intestati alla Santa Sede. Ma ancora di più, a manifestare la volontà del Vaticano di fare luce sulla scomparsa di Emanuela, che da anni getta ombre anche sulla Chiesa, ci sono le dichiarazioni del promotore di giustizia Diddi, che in un’intervista al Corriere ha detto: “Sul caso Orlandi papa Francesco e il Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, vogliono che emerga la verità senza riserve. Mi hanno concesso massima libertà d’azione per indagare ad ampio raggio senza condizionamenti di sorta e con il fermo invito a non tacere nulla. Ho il mandato di accertare qualunque aspetto in uno spirito di franchezza, di “parresia” evangelica e tale approccio è ciò che più conta”. Con questo spirito, sicuramente rinnovato rispetto ad alcune incertezze dei mesi scorsi, si è svolto ieri l’incontro tra il promotore di giustizia vaticana e Pietro Orlandi, il quale arrivando all’appuntamento ha detto ai cronisti: “Oggi è il grande giorno”. Un giorno in cui, per la prima volta, il fratello di Emanuela è stato ascoltato su una serie di aspetti rilevanti, che vanno dai messaggi whatsapp tra i due prelati e arrivano ai documenti di Vatileaks 2, fino ai dossier sulla scrivania di Papa Joseph Ratzinger, sulla base soprattutto delle dichiarazioni di padre George Gänswein, segretario di Benedetto XVI. Pietro Orlandi era rimasto colpito di come il segretario dell’ex Pontefice si fosse sentito di precisare, senza che nessuno glielo chiedesse, che non esisteva alcun dossier su Emanuela in Vaticano. Eppure, secondo il fratello della 15enne scomparsa, quel documento segreto esiste eccome e sarebbe chiuso, secondo alcune fonti credibili, in un cassetto della Segreteria di Stato della Santa Sede. “Anche se monsignor Gänswein ora sostiene che quel rapporto non c’è, noi abbiamo la certezza della sua esistenza. È stato lo stesso Georg”, aveva detto Pietro Olrlandi, “a parlare con il nostro avvocato, Laura Sgrò, alla quale ha confermato l’esistenza del fascicolo su Emanuela e le ha ribadito che è attualmente in Segreteria di Stato”. La stessa conferma che è arrivata al fratello di Emanuela da Paolo Gabriele, il “corvo” del caso Vatileaks, l’ex maggiordomo di Ratzinger che, nel 2012, rubò documenti privati del Pontefice e li divulgò alla stampa. “Nel 2011 ho incontrato monsignor Gaenswein e mi disse che avrebbe parlato con il capo della Gendarmeria Domenico Giani che avrebbe compilato un fascicolo, che lo avrebbe consegnato a Paolo Gabriele. Io conoscevo bene Gabriele”, racconta Pietro, “perché abitava sopra a mia madre. Mi disse che sul tavolo di padre Georg c’era un fascicolo e mi disse che era dispiaciuto che non fosse riuscito a fotocopiarlo. Ma era su quel tavolo, spillato e chiuso in una cartellina. Inoltre aggiunse che gli fu espressamente chiesta la conferma di non aver rubato il fascicolo su Emanuela perché, gli dissero, se va alla stampa è una tragedia”. Ed è questo uno degli aspetti che Pietro ha voluto affrontare ieri durante il colloquio, al quale ha accompagnato le nuovi questioni che emergono dalle chat tra i due telefoni intestati al Vaticano dove i due prelati, di cui Pietro Orlandi ha fatto il nome a Diddi, nel 2014 parlavano della scomparsa di Emanuela, facendo riferimenti pesanti, perfino il nome di Papa Francesco e quello del cardinal Abril, all’epoca presidente della Commissione cardinalizia dello Ior. I due misteriosi interlocutori facevano poi riferimento a “tombaroli” e ad alcune cose che erano state fatte sparire dalla stanza sotterranea del cimitero Teutonico, costruita in cemento armato e ritrovata vuota quando una gola profonda l’aveva indicata come il luogo in cui giacevano i resti della ragazza. Quelle conversazioni erano state consegnate lo scorso anno nelle mani di Pietro, che a quel punto aveva deciso di puntare davvero in alto e scrivere una lettera a Bergoglio, lo stesso Papa che, subito dopo l’elezione al soglio pontificio, aveva confessato a Pietro: “Emanuela è in cielo”. Francesco, di fronte a quella missiva di richiesta d’aiuto, non era rimasto silente, ma aveva risposto alla famiglia, indicando a Pietro la strada da seguire per trovare le risposte: condividere i nuovi elementi di prova con il tribunale vaticano. Così è stato e quegli elementi devono essere risultati rilevanti, visto che a gennaio scorso, per la prima volta in quarant’anni, la Chiesa ha deciso di aprire un fascicolo, per mettere una volta per tutte la parola fine a un caso che, negli anni, ha visto aleggiare ombre sul Vaticano e perfino intrecci con la Banda della Magliana, culminati nella scelta dei magistrati capitolini di aprire la tomba del boss Renatino De Pedis, tumulata incredibilmente nella chiesa di Sant’Apollinaire, perché qualcuno giurava che insieme ai suoi resti ci fosse anche il corpo di Emanuela.

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