L’industria di Marca vale 90 miliardi. Mutti, Centromarca: sia modello di sviluppo per l’Italia
In Italia l’Industria di Marca vale il 70% di un mercato multicanale, che solo nella moderna distribuzione sviluppa un giro d’affari di 90 miliardi di euro. Alimenta un ampio indotto e grazie al suo apporto i settori dei beni di consumo sono arrivati a pesare per un terzo sull’export, garantendo contributi rilevanti al prodotto interno lordo e alla fiscalità. Un ruolo trainante nel contesto economico italiano che sottolinea il presidente di Centromarca, Francesco Mutti. Pur facendo notare quanto sia oggi difficile fare previsioni con un’inflazione che dà sì segni di allentamento ma in uno scenario geopolitico ed economico ancora caratterizzato da una forte instabilità.
L’auspicio è che la Marca diventi modello di sviluppo competitivo per l’Italia: “bbiamo bisogno di industrie sane, eccellenti e innovative, con le carte in regola per generare quel valore, a monte e a valle delle filiere, da cui derivano remunerazioni più elevate e benessere per le famiglie – dice Mutti -. Di aziende in grado di espandersi sul piano geografico, di costruire relazioni innovative con il retail, di presidiare gli strumenti digitali. E con un forte potenziale di crescita, perché le dimensioni sono essenziali: rendono le aziende più solide, resilienti, meno sensibili agli shock dovuti alle oscillazioni del ciclo economico; contribuiscono al contenimento delle tensioni inflative, sono fondamentali per affrontare la concorrenza internazionale”.
Opportunità che Mutti chiede siano affiancate dalla condivisione del Governo: “Stiamo portando all’attenzione istanze e proposte. Serve un piano nazionale che favorisca lo sviluppo dei comparti strategici, finalizzando risorse e creando le condizioni ambientali per l’affermarsi di un’industria dell’eccellenza orientata alla creazione di valore” E sul breve periodo rendere “più consistente e strutturale il taglio del cuneo fiscale. Le coperture economiche, per non pesare sul debito nazionale, dovrebbero essere recuperate con tagli selettivi alla spesa pubblica”.
Rammentato il contesto interno e esterno. Nel 2022 le industrie del largo consumo hanno subito significativi incrementi dei costi, solo parzialmente trasferiti a valle. Ne sono derivate contrazioni significative dei profitti. Nell’alimentare, per esempio, i margini per unità di prodotto si sono ridotti del 41,6. Nei dati dell’Osservatorio Congiunturale Centromarca – Ref Ricerche, il 43,5% dei manager che ha riscontrato profitti in diminuzione e il 6,2% che ha prodotto in perdita. Registrando che l’inflazione del primo semestre 2023 è riconducibile alle forti tensioni del 2022 non ancora totalmente scaricate a valle.
Un’inflazione ancora più pesante “se le industrie di marca non avessero reagito alle difficoltà rivedendo strategie, diversificando le fonti di approvvigionamento, migliorando l’efficienza e l’efficacia dei processi”, perché è rilevante che nel 2022 su 152 euro mensili di maggiori spese determinate dall’inflazione (rispetto all’anno precedente) 35 euro siano state riconducibili al carrello della spesa, mentre il peso maggiore sulle famiglie – ben 95 euro al mese – è derivato dai rincari delle utenze domestiche.
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