Economia

L’Italia del post populismo dove i ricchi sono poveri e i tycoon non pagano tasse

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

Secondo alcuni autorevoli studiosi e commentatori, che traggono ispirazione dal Rapporto Censis 2022, l’Italia sta cominciando a uscire dalla stagione del populismo. Stando infatti al Rapporto, l’insofferenza sempre più acuta verso fenomeni come la disparità salariale tra dipendenti e manager, i bonus milionari di buonuscita per i manager, pagati per andarsene piuttosto che lavorare, le tasse troppo basse pagate dai colossi del web, i guadagni degli influencer, gli eccessi e gli sprechi per le feste delle celebrità, l’uso di jet privati e l’ostentazione sui social di spese stratosferiche in hotel, ristoranti e locali notturni contribuisce a incidere sull’immaginario collettivo. “Queste insopportabilità sociali non sono liquidabili come populiste – afferma il Rapporto – ma sono i segnali del fatto che nella società si è già avviato un ciclo post-populista basato su autentiche e legittime rivendicazioni di equità, in una fase in cui molti sentono messo a repentaglio il proprio benessere”.

 

Questa è la conclusione del Censis, ma si potrebbe osservare che sono stati precisamente tali fenomeni a dare ossigeno alla retorica anti-establishment che ha alimentato l’offerta politica declinata in chiave populista, sovranista e patriottica ora arrivata a governare il nostro Paese. Non è affatto scontato, in altre parole, che i “perdenti” della globalizzazione indirizzino le loro preferenze elettorali verso i partiti che fanno della redistribuzione e dell’espansione del welfare state il nucleo fondamentale della propria proposta politica. Non c’è dubbio, infatti, e sono innumerevoli gli studi che lo dimostrano, che vi sia una diretta correlazione tra i rischi socioeconomici creati dall’iperglobalizzazione – ossia dal processo di internazionalizzazione delle attività produttive imperniato sulle catene globali del valore – e l’adesione degli individui alle retoriche sovraniste e identitarie.

 

Questa correlazione non è casuale. Mentre il “liberalismo vincolato” che ha governato la globalizzazione dal secondo dopoguerra agli anni Novanta compensava i rischi e le vulnerabilità derivanti dall’esposizione all’apertura dei mercati con misure di protezione sociale supportate dallo Stato, l’iperglobalizzazione ha imposto drastici vincoli alla capacità impositiva degli Stati e quindi alla loro capacità di fornire politiche di welfare. Troppo spesso assecondata dalla politica rinunciataria della sinistra tradizionale, questa tendenza ha scatenato la reazione populista, per cui i “perdenti” della iperglobalizzazione sono diventati il naturale bacino elettorale dei partiti che propongono di ridimensionare in maniera più o meno consistente i vincoli economici, sociali e culturali che trascendono i confini dello Stato nazionale.

 

Per questo non è detto che i dati del Censis debbano essere interpretati nella prospettiva di una stagione post-populista. Le cause dello scontento diffuso, e del tutto giustificato, che hanno gonfiato le vele dei partiti populisti non sono affatto venute meno. Quando viene meno il compromesso tra globalizzazione e welfare state, travolto dalla logica di funzionamento di un’economia internazionale iperglobalizzata, si crea una situazione che fa scivolare i lavoratori verso i gradini più bassi della scala sociale, sia in termini di reddito sia di status, e spinge i penultimi a trovare negli ultimi un comodo capro espiatorio. In realtà, non è affatto scontato che la vulnerabilità ai rischi socioeconomici si debba necessariamente tradurre in una domanda di chiusura rispetto all’economia globale. Occorre però che rischi e vulnerabilità trovino adeguate misure di compensazione da parte di partiti che facciano dell’espansione – e non della contrazione – del welfare state il centro della proposta politica.

 

È quando ciò non avviene che la richiesta di protezione sociale si traduce nella volontà di rendere i confini nazionali sempre meno permeabili alla penetrazione di beni e persone. È quando i rischi della globalizzazione non vengono compensati da meccanismi pubblici di protezione che le categorie più esposte ai rischi della globalizzazione si lasciano tentare dalle facili – e irrealistiche – proposte di soluzione offerte dalle sirene populiste. È quando le legittime richieste di protezioni sociali, che derivano da un’esposizione indiscriminata a una logica che subordina l’ordine sociale agli imperativi del mercato, vengono sistematicamente disattese che la situazione può precipitare.


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