Arrivano dei momenti nel corso della storia in cui gli Stati sono chiamati a prendere posizione. Gli ultimi mesi possono essere definiti “storici”, anche per il loro rappresentare una sorta di spartiacque tra chi sta condannando la tragedia di Gaza e chi invece, barcamenandosi tra equilibrismi diplomatici e interessi commerciali, sfugge e svicola.
Il governo italiano non può più tentennare
L’Italia è tra i Paesi che più rischiano di rimetterci in termini di autorevolezza e credibilità. Il governo Meloni sta continuando a tergiversare, mentre le Forze di difesa israeliane hanno fatto sapere che continueranno ad usare “una forza senza precedenti” a Gaza City, dove quasi 500mila persone sono state costrette a lasciare case e affetti. Siamo molto lontani dai livelli dei governi della Prima Repubblica, ma anche ben distanti da quelli degli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi, che dai predecessori avevano ereditato, almeno in parte, l’abilità nel destreggiarsi in scenari complessi.
La precisazione infelice di Tajani
“Veniamo accusati di essere complici di genocidio. Non è vero. Claudio Martelli, che non è certo del nostro partito, mi faceva notare che culturalmente la parola genocidio è diversa da carneficina e massacro. Genocidio significa avere scientemente la volontà di eliminare un intero popolo. Per me qui si tratta di una carneficina”, ha dichiarato il vicepremier Antonio Tajani, parlando in una conferenza stampa di Forza Italia nella sede nazionale delle accuse da parte dell’opposizione di complicità di genocidio a Gaza. Un’uscita molto discutibile per tempi, forma e sostanza. Tajani, tra l’altro, ha dimostrato di non tenere in considerazione il rapporto presentato dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est. I commissari hanno concluso che le autorità e le Idf hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza occupata, reiterando quattro atti proibiti dalla Convenzione sul genocidio, ossia: uccidere membri del gruppo, infliggere loro gravi danni fisici o mentali, imporre deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale, imporre misure volte a impedire le nascite.
La delicata questione delle armi fornite a Israele
L’esecutivo della premier Giorgia Meloni è chiamato a fare chiarezza anche sulle armi vendute a Israele. Al porto di Ravenna, giovedì sera, due camion con a bordo container carichi di esplosivi non hanno varcato i cancelli del terminal. I mezzi erano partiti dalla Repubblica Ceca e avrebbero dovuto imbarcarsi su una nave della compagnia israeliana Zim, diretta ad Haifa. Il blocco è stato deciso dalle istituzioni locali, Comune, Provincia e Regione Emilia-Romagna, che, in qualità di azionisti pubblici della società portuale Sapir e della controllata Terminal Container Ravenna (TCR), si sono fatti valere.
Interpellato al Senato durante il question time, il ministro Tajani si è giustificato dicendo: “Non serve autorizzazione per nulla che parta dai porti, quindi io non so nulla di cosa è successo perché non sono armi italiane e munizioni italiane”. Una mezza verità se si considera che la legge 185/1990 vieta non solo l’esportazione ma anche il transito di materiali d’armamento verso Paesi in guerra o accusati di violazioni dei diritti umani. L’Italia potrebbe e dovrebbe disporre il blocco della fornitura di armi a Israele. Si tratta di scegliere da che parte stare. Adesso.