L’occhio della Polizia che non dorme mai
Nel mondo contemporaneo la polizia non è più quella che presidia le strade, ma quella che abita gli schermi, un potere invisibile che vigila le coscienze e registra i desideri. Paradossalmente, l’universo antagonista e anarchico, sempre in lotta con l’autorità pubblica, accetta la polizia che annichilisce l’anima, tecnologica, algoritmica, privata.
Nel garantire una libertà apparente e priva di regole ha omologato il linguaggio, il consumo e i costumi, una forma di colonialismo travestito. Heidegger ammoniva che «il pericolo supremo della tecnica non è nella macchina, ma nel fatto che essa esige da noi un modo di pensare univoco». E così, mentre puntualmente c’è chi contesta la Polizia di Stato o chi indossa una divisa per garantire la sicurezza pubblica, si idolatra quella che rende schiavi del profitto, scambiando la trasparenza per emancipazione, asservendosi al neocapitalismo digitale e social.
Anche il movimento anarchico, che anela alla libertà priva dello Stato di diritto, obbedisce a un potere che controlla le vite e le coscienze. Non c’è più notte, perché la luce non illumina, spia. La soglia tra privato e pubblico è stata abolita. Ogni gesto, ogni respiro, ogni esitazione è visibile, misurabile, archiviato. La chiamano innovazione tecnologica, ma è la religione di una società al crepuscolo, segnata dalla perdita dei valori atemporali e dall’egemonia del consumo digitale, onniveggente, impersonale, devota a sé stessa e al profitto.
Ogni tocco sullo schermo è un atto di culto, ogni social e i suoi volti un’offerta sull’altare dei nuovi dèi — piattaforme e algoritmi — prodotti dal mercatismo di multinazionali private, che hanno sostituito gli Stati. Non scrivono leggi, ma stabiliscono le regole del mondo. Gates, Musk e gli altri profeti della Silicon Valley incarnano la traslazione del potere, da politico a tecnocratico, da pubblico a privato. La politica, un tempo portatrice dei valori del lavoro e dell’emancipazione, nel percorrere il viale del tramonto, registra il falso mito di un progresso dopato, come se fosse la fatalità della storia.
La polizia che seduce l’anima non impone, annichilisce. Nel nome del profitto, anche la ribellione è diventata merce e la democrazia, logorata dagli eccessi libertari, è stata ridotta a icona pubblicitaria. La privacy è un fossile burocratico, utile solo per bandi pubblici e moduli imbevuti d’ipocrisia da compilare. Ogni desiderio è tracciato, ogni debolezza profilata. Non servono più interrogatori né magistrati per far confessare, ci pensa l’analisi predittiva. E mentre c’è chi si indigna per una telecamera in piazza, offre con gioia il proprio volto agli algoritmi che scandagliano la vita.
La libertà non è stata ceduta a un governo, ma a un software privato. E lo abbiamo fatto in nome del comfort, dell’efficienza, della connessione perpetua. Così il populismo politico qualunquista, dopo aver difeso i confini dell’umano, ha finito per rivendicare i diritti digitali prodotti dal potere di cui si è servito, confondendo emancipazione con accesso, libertà con visibilità, cultura con opinione. Nell’era della polizia dell’anima non serve la repressione, basta l’inclusione algoritmica. Non si punisce chi disobbedisce, si cancella chi tace.
Ahimè, la sottomissione al mercato globale è stata favorita dall’ignavia dei salotti progressisti, un tempo fucine di pensiero critico e di controculture. Accantonate le letture di Marx e Marcuse, oggi sono ridotti a comparse nei talk show televisivi, trasformati in teatri di un moralismo d’accatto, ove il dissenso non può che essere simulato quando la memoria è cancellata. Il moralismo che un tempo pretendeva di emancipare si è fatto servitore del conformismo mediatico, avendo disperso quello sociale.
Oggi recita la policy di Meta. Rivendichiamo privacy mentre viviamo il paradosso della libertà sorvegliata: «il Panopticon, quel modello di potere in cui l’essere visti è la condizione della disciplina», ricordava Foucault. Il grande occhio non ci spaventa perché ci consola e non ci opprime, ci accompagna per opprimerci meglio. È il Padre che abbiamo ucciso e poi ricreato in forma digitale, perché la libertà, in fondo, ci spaventa più del controllo. «Se Dio non esiste, tutto è permesso», scriveva Dostoevskij. Ma l’Algoritmo ne ha rovesciato il senso, nulla è più segreto. Nel tempo della sorveglianza globale, il silenzio è l’ultimo gesto rivoluzionario, tacere come atto estremo di libertà. La democrazia costituzionale, nata per difendere l’individuo dal potere visibile dello Stato, è oggi inerme di fronte a quello invisibile della rete. L’algoritmo non vota, non risponde, non è eleggibile, ma governa.
E, come ammoniva Sartre, «l’uomo è condannato a essere libero». Ma siamo davvero liberi, se non possiamo più essere soli? Forse no. Perché l’occhio della Polizia che annichilisce l’anima, non dorme mai e ci sorveglia anche quando crediamo di aver spento la luce.
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