L’ombra del depistaggio sull’omicidio Mattarella
“Sarebbe riduttivo pensare che l’omicidio sia stato provocato da un appalto concesso o negato. La manovra moralizzatrice di Piersanti Mattarella era molto più ampia: cercava di rendere la classe dirigente siciliana meno permeabile a qualsiasi influenza”.
Lo disse Giovanni Falcone in un’audizione del 1991. Un’intuizione che, 45 anni dopo, continua a risuonare come una condanna amara: l’intento di Mattarella di cambiare la Sicilia — e con essa un certo modo di fare politica — gli costò la vita. E la notizia di ieri, a quasi mezzo secolo dal delitto che sconvolse Palermo e la Repubblica, non è soltanto una notizia giudiziaria. È il segnale che la giustizia italiana continua a scavare nei propri vuoti, nelle omissioni e nelle paure rimaste sospese.
Si riapre il caso Piersanti Mattarella: Piritore agli arresti
La Direzione investigativa antimafia ha infatti notificato la misura degli arresti domiciliari a Filippo Piritore, ex funzionario della Squadra Mobile di Palermo poi divenuto prefetto, indagato dalla Procura distrettuale antimafia per depistaggio nell’inchiesta sull’omicidio dell’allora presidente della Regione Siciliana.
Secondo la DDA, Piritore avrebbe alterato e sviato le indagini nei giorni immediatamente successivi al delitto del 6 gennaio 1980, fornendo versioni “del tutto prive di riscontro” riguardo a un reperto chiave: un guanto in pelle scura trovato nella Fiat 127 usata dai killer e poi misteriosamente scomparso. Quel guanto torna oggi al centro della scena come simbolo di una verità cancellata. Il reperto, descritto nei verbali del sopralluogo come “guanto di mano destra, in pelle marrone scuro, rinvenuto davanti al sedile del passeggero”, fu fotografato dagli agenti della Polizia Scientifica.
La versione di Piritore
In quelle immagini compare anche Piritore, presente sul luogo in cui la 127 era stata abbandonata. Ma di quell’oggetto, nei registri, non resta traccia: nessun verbale di consegna, nessuna annotazione nei corpi di reato, nessun documento che ne certifichi il trasferimento. Secondo la versione fornita da Piritore, il guanto sarebbe stato consegnato all’agente della Scientifica Di Natale, con l’incarico di portarlo al sostituto procuratore Pietro Grasso, allora titolare delle indagini. Grasso, a sua volta, avrebbe disposto che l’oggetto tornasse alla Scientifica per essere analizzato. Ma di quella consegna non esiste alcuna traccia, né negli archivi della Procura né in quelli della Polizia.
Un percorso tortuoso e improbabile, dicono oggi i magistrati palermitani. ”È difficile comprendere perché un reperto da analizzare sia stato consegnato al magistrato, che nessuna attività tecnica avrebbe potuto compiere”. La Procura parla apertamente di “indagini gravemente inquinate e compromesse da appartenenti alle istituzioni”, con l’evidente scopo di impedire l’identificazione degli assassini. Quel guanto, che avrebbe potuto forse conservare impronte o residui biologici oggi analizzabili, è diventato il simbolo di una verità negata.
Nella rete di relazioni di quei giorni compare anche Bruno Contrada, all’epoca capo della Squadra Mobile e poi della Criminalpol. Secondo una sentenza definitiva, nel 1980 Contrada intratteneva rapporti con i boss Michele Greco e Totò Riina, pur occupandosi ufficialmente dell’inchiesta sull’omicidio Mattarella. Era sul luogo del delitto insieme a Grasso e all’ufficiale dei carabinieri Antonio Subranni. Raccoglieva testimonianze dalla vedova Irma Chiazzese e dal figlio Bernardo, presenti all’agguato. Fu proprio Piritore a dichiarare di aver informato Contrada del ritrovamento del guanto. E fu Contrada, secondo il suo racconto, a ordinargli di riferire tutto a Grasso e di consegnare i reperti alla Scientifica.
I due si conoscevano bene, frequentandosi anche fuori dal lavoro: un legame che oggi riemerge come ulteriore elemento di ambiguità. Per la DDA, dunque, il depistaggio non sarebbe soltanto un’ipotesi. Ci sarebbe stato un intervento consapevole.
Le indagini
Le indagini mirano ora a ricostruire non solo il percorso del reperto scomparso, ma anche a chiarire chi — e perché — poté decidere di farlo sparire. Piritore, dicono i magistrati, avrebbe contribuito a “sviare le indagini funzionali al rinvenimento del guanto”, un gesto che ha impedito per decenni la piena ricostruzione. L’allora sostituto procuratore Pietro Grasso, ascoltato dagli inquirenti nel 2024, ha smentito categoricamente di aver mai ricevuto il guanto o qualsiasi nota in proposito. Un’assenza documentale che rafforza, per la Procura, il sospetto di una catena di custodia interrotta e manipolata.
L’attentato e la morte do Piersanti Mattarella
Per capire la portata di quanto accaduto, occorre tornare alla figura di Piersanti Mattarella. Democristiano, allievo politico di Aldo Moro, presidente della Regione Siciliana dal 1978 al 1980, rappresentava una rara voce di rinnovamento in una terra dove la politica era spesso intrecciata con interessi mafiosi. Promosse regole di trasparenza negli appalti, un’amministrazione più rigorosa, una “Sicilia normale” — come la definiva. Sapeva di essere nel mirino. Dopo il sequestro e l’uccisione di Moro, confidò: “È finita anche per me”. Il 6 gennaio 1980, mentre si recava a messa con la famiglia, venne assassinato nella sua auto a colpi di pistola. L’immagine del fratello Sergio Mattarella, accorso per soccorrerlo, è rimasta impressa nella memoria collettiva grazie alla celebre foto di Letizia Battaglia. Oggi si torna a indagare non solo su chi sparò, ma su chi decise che la verità non dovesse emergere.
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