Editoriale

MAMMA SANTISSIMA CASA E BOTTEGA

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


Chissà cosa pensa dello sciopero dei benzinai, il mammasantissima di Cosa Nostra costretto a fare la spola fra casa e bottega, fra il covo di Campobello e l’ufficio di Tre Fontane. Già, Matteo Messina Denaro fra le tante cose strane, faceva pure il “pendolare” della Mafia. Dopo il Green pass, la spesa al supermarket del paesello, le telefonate ai pazienti della clinica, ultimo dei corleonesi non si faceva mancare nulla. Come una supplente precaria, al mattino lasciava la sua dimora in pieno centro a Campobello di Mazara, dove nessuno lo ammette ma molti, se non tutti lo conoscevano come l’ultimo stragista condannato a diversi ergastoli per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, oltre alle bombe di Roma, Firenze e Milano, vivesse lì. E da solo in auto, autoradio a palla, si facesse quella manciata di chilometri che separano il covo della vita privata (si fa per dire) dal luogo degli affari, degli ordini, dell’attività criminale.
Da quel che sta emergendo, insomma, la vita del boss latitante da tre decenni somigliava più a quella di un commesso viaggiatore che a quella di un assassino braccato da uno Stato che gli dava la caccia. E questo, al di là degli spunti che potrà fornire ad aspiranti biografi e sceneggiatori di improbabili seguiti de Il Padrino o, sarebbe meglio dire, Lillihammer in salsa italica, spalanca la vera questione che ormai da dieci giorni sottende a questo arresto. Detto che i pm di Palermo e il Ros che ha catturato Messina Denaro sono stati impeccabili sia nell’indagine finale sia nell’operazione che ha portato alle manette, serve che ora tutti questi dettagli trovino una spiegazione compiuta e credibile. Perché questa vita spericolata lascia aperti molti dubbi e non si può certo liquidare con una battuta. Né spiegare con l’improvvisa ansia della morte dettata dalla prognosi infausta degli oncologi. Proprio no. Sia perché un mafioso vuole morire nel suo letto, per affermare la sua supremazia come fece il papà di Messina Denaro, Francesco, sia perché un mafioso mette in conto la propria morte ben prima che un dottore sveli la gravità di una malattia terminale. E non si tratta di insinuare dubbi o fare i complottisti, si tratta al contrario di mettere proprio gli elementi investigativi in fila. E tirare le somme senza pregiudizi, né di grandi trattative fra Stato e mafia, né di un arresto senza precedenti o impossibile da prevedere. Se vogliamo, insomma, che questo sia un colpo a favore di tutti gli italiani onesti, ora il compito dello Stato è fare luce non solo sulla rete del boss, i suoi complici e il suo ruolo nelle trattative con lo Stato durante i trent’anni di latitanza – se davvero ci furono – ma anche sulle tante indagini finite in nulla, sui fascicoli impigliatisi in binari morti, sulle anomalie, i furti di materiale probatorio, le sospensioni di ufficiali e sottufficiali inquirenti che negli scorsi anni arrivarono al convincimento di avere stretto intorno al capo un cordone sanitario a prova di bomba. Cosa di cui deve essersi convinto pure lui. L’insabbiamento, cioè, di un enorme lavoro d’indagine finito spesso in nulla di fatto. Non è solo il dovere di ricostruire tutte le mosse del boss, ma un obbligo morale della Repubblica se vorrà essere creduta. Perché la storia del pendolare trivaccinato che ha un ufficio fuoriporta e incassa miliardi dal racket e dai traffici illeciti, non regge. Proprio no.

Torna alle notizie in home