Politica

INTERVISTA A MARIO MORI E GIUSEPPE DE DONNO – “Mani pulite e mafia-appalti un unico sistema, noi lo sapevamo”

di Redazione -


di ANNA GERMONI
Mario Mori, 84 anni, ex comandante del Ros, ex direttore del Sisde, fa scacco matto a qualsiasi app di AI. Giuseppe De Donno, 10 anni al Ros e sei al Sisde, scopre mafia-appalti, prima di Tangentopoli. Occasione ghiotta per un’intervista. Generale, quarantadue anni nell’Arma in servizio permanente, oltre venti come imputato permanente effettivo…
«Rifarei tutto quello che ho fatto. Non ho mai temuto sull’esito finale».
I guai giudiziari iniziano con l’arresto di Riina. Perché?
«Proprio lì inizia il problema della discrasia tra l’atteggiamento della Procura di Palermo e l’attività del “metodo Dalla Chiesa”. Abbiamo applicato lo stesso metodo per distruggere la colonna romana delle Br. Per tre mesi pedinammo tanti autori di terrorismo, anche con il rischio di perderli. Individuammo 33 persone. Non li arrestammo tutti. Solo 27 e 6 rimasero liberi, altrimenti perdevamo il contatto con la loro realtà. Dopo due anni, ne arrestammo altri 20. Così eliminammo tutta la colonna romana Br. Questo spiegai quando catturammo Salvatore Riina, a Giancarlo Caselli. Pensavo di essere stato compreso. Lui veniva dall’esperienza con il terrorismo e sapeva benissimo come conducevamo le indagini!».
Involontariamente avete sbagliato qualcosa?
«Sì, l’errore ci può essere essere stato. Ma che venga contestato subito! Nessuno ha criticato che avevamo omesso, secondo loro, di perquisire l’abitazione di Riina, spacciata giornalisticamente per il covo. Dopo 4 anni, ce lo contestano. Allora, qualcosa non va! Questo è il motivo del contrasto che c’è stato con la Procura di Palermo. Per quanto mi riguarda, non è ancora sanato!».
Colonnello, venti anni di processi: un abbaglio giudiziario o altro?
«Venti anni di processi sono tantissimi e pesanti. Probabilmente non è ancora finita».
Cosa intende?
«Nonostante la sentenza della Cassazione su questa vicenda, un magistrato della procura nazionale Antimafia, Antonino Di Matteo, sostiene che i giudici supremi non hanno volutamente valutato le prove che esistevano della nostra colpevolezza e che hanno emesso una sentenza politicamente indirizzata perché il Paese non era pronto a conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia ».
Infatti il pm ha dichiarato: «La sentenza della Cassazione sulla trattativa è un colpo di spugna: si dovevano cancellare quelle verità che erano troppo scabrose per questo Paese». Parole forti…
«Sconvolgenti! Un magistrato in servizio se ha queste notizie, deve andare immediatamente in Procura a denunciare. Oppure che si apra un fascicolo processuale e arrestiamo tutti i giudici supremi della sesta sezione!».
Il ruolo dei media?
«Pochi giornalisti hanno studiato gli atti processuali. Alcuni opinionisti, noti e di grido hanno tentato di suggestionare l’opinione pubblica. Il messaggio era chiaro: non solo due ufficiali hanno trattato con la mafia, concetto già aberrante di per di sé, ma addirittura che l’intero reparto del Ros dell’Arma fosse deviato. È inaccettabile!».
I giudici Falcone e Borsellino volevano colpire la mafia negli interessi economici. Mani Pulite e mafia-appalti, un unico sistema?
«Sì! Mafia-appalti è una vera e propria indagine che inizia nel 1989 e finisce nel 1993 con Vito Calogero Ciancimino. L’informativa venne consegnata a Falcone il 16 febbraio 1991. Lavorando su alcuni gruppi mafiosi, individuando quello che viene definito il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, Angelo Siino, offrivamo a Falcone una visione diversa del sistema imprenditoriale di cosa Nostra. Così optammo nell’investigare gli appalti pubblici, perché la gestione di tale settore necessitava non solo degli apparati di cosa Nostra, ma anche di attività illecite di imprese, amministrazioni, politici. Tutti allo stesso tavolo con la mafia per spartirsi i profitti. Ma alla pari. Individuammo che la famiglia Buscemi Antonino era diventata socia della Calcestruzzi Spa, ovvero il gruppo Montedison, cioè Raul Gardini. Nel ’90, capiamo cosa voleva dire questo nome? Falcone all’epoca disse: “La mafia è entrata in borsa”. Ma non fu capito. Inoltre chiedo: perché la tangente Enimont di 27 miliardi di vecchie lire giunse a Salvo Lima?».
Dopo la strage di Capaci, mafia-appalti va avanti?
«Borsellino era convinto che andava proseguita, perché ritenne che era il metodo migliore per attaccare cosa Nostra e volle capire se la morte di Falcone era correlata ad essa. Chiese ad Antonio Di Pietro di unire i due filoni d’indagine, per dare modo a Milano che aveva appena iniziato Mani Pulite di tirare le somme: i politici erano gli stessi,le imprese le medesime, mancava la componente cosa Nostra. In quei 57 giorni di vita dopo la strage di Capaci, il giudice era focalizzato solo su questa inchiesta. L’ultima sentenza del Borsellino quarter, dei giudici di Caltanissetta, che per competenza indagano sulla strage di Via D’Amelio, mettono in evidenza la casuale di questa inchiesta, come la più credibile per l’accelerazione della morte di Borsellino?».
Il 13 luglio ’92 i pm di Palermo, Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, chiedono l’archiviazione del dossier. Il giorno dopo, c’è una riunione alla Dda di Palermo con il giudice. Perché archiviarono senza informarlo?
«Borsellino, dopo la strage di Capaci fino alla mattina del 19 luglio 1992 era stato escluso dalle indagini su Palermo per volere del suo capo procuratore: Giammanco. Il giudice non accettò supinamente questa impostazione e cercò separatamente e riservatamente di continuare i suoi accertamenti, convinto del fatto così come disse confidando a qualche suo collega, “che la Procura di Palermo era un nido di vipere”. Posso fare una premessa?».
Certo…
«La prima parte di quel dossier venne consegnata alla Procura di Palermo nel febbraio del 1991, quando Falcone era già agli Affari Penali del ministero guidato da Martelli. Quando apprese contezza di questo plico, che venne spedito dal capo della Procura di Palermo, Giammanco al dicastero, chiese di non aprirlo e il ministro scrisse al Csm. Praticamente dopo pochi giorni che noi avevamo consegnato l’inchiesta al capo della Procura di Palermo, lui l’aveva recapitata all’onorevole Mario D’Acquisto, ex sottosegretario di Stato, ex presidente della Regione Sicilia, il quale a sua volta l’aveva data a Salvo Lima, parlamentare europeo e rappresentante della corrente andreottiana in Sicilia, tramite un commercialista, Pino Lipari, che era anche il commercialista di Riina. Quindi dopo 15 giorni il nostro dossier era nelle mani della mafia!».
Il dottor Borsellino cosa fa?
«Il 18 luglio 92’, Borsellino ci chiede di prelevare dall’archivio della Procura di Palermo alcuni fascicoli, con alcune indicazioni. Erano persone coinvolte in mafia-appalti. Il giorno dopo, il 19 luglio mattina di domenica, alle 7:15, Giammanco telefona a casa del Borsellino, e gli conferisce le indagini anche su Palermo, dicendogli che la partita è chiusa. La signora Agnese Piraino, moglie del giudice testimonierà, che Borsellino replicò al procuratore con tono deciso: “No, ora inizia la partita!”. Quel pomeriggio stesso morì. C’era bisogno di chiamare il dottor Borsellino di domenica mattina a quell’ora, per dargli la delega sulle indagini palermitane, quando avrebbe potuto benissimo farlo il giorno dopo? Da investigatore ritengo che Giammanco, sapesse qualcosa che doveva accadere in quei giorni. Dal luglio 1992 al 18 novembre 2018, quando è morto, alcun magistrato di qualsiasi Procura italiana gli ha mai chiesto contezza di quegli anni e di quelle vicende. Uno scandalo!Per me, questo è un reato gravissimo!».
Oltre a mafia-appalti, un’altra inchiesta a Massa Carrara. Il pm, Augusto Lama, indagando sulle cave di marmo, aveva scoperto la presenza dei Buscemi. Inviò il tutto nell’agosto del 1991 alla procura di Palermo. Stessi nomi presenti nel vostro dossier. Siete stati informati di questo?
«No! Questo fascicolo inviato da Massa Carrara a Palermo era fondamentale, perché rappresentava documentalmente le collusioni tra cosa Nostra e il gruppo Ferruzzi. Dovevamo essere i naturali interlocutori per sviluppare questa inchiesta, perché avevamo la conoscenza investigativa del pregresso rapporto mafia-appalti. Fu interessata la guardia di finanza, che è qualificata per questo tipo di attività. Ma non conoscere i Buscemi a Palermo, dove il fratello di Nino Buscemi era alleato di Totò Riina, è sbalorditivo. Così è stato archiviato il tutto!».
Generale, è finito qui il servizio di imputato permanente effettivo?
«Sono stato processato tre volte con tre ufficiali diversi: il primo con Sergio De Caprio, per favoreggiamento a cosa Nostra. Il secondo, con Mauro Obinu, per favoreggiamento a Provenzano. Mentre il terzo, con Giuseppe De Donno. Dato che ho avuto molti ufficiali alle mie dipendenze, la possibilità e il campo di azione delle Procure, non è infinito, ma quasi. Quindi aspetto con fede, tranquillamente e serenamente».

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:

Egregio Direttore,

Le scriviamo in merito all’intervista a Mario Mori e Giuseppe De Donno pubblicata sul quotidiano da Lei diretto in data 20 maggio u.s.

Nel corpo dell’intervista, la giornalista, Anna Germoni, rivolge una domanda agli intervistati che contiene due affermazioni non vere, che riteniamo doveroso smentire: la prima è che i sottoscritti il 13 luglio 1992 chiesero l’archiviazione del dossier mafia-appalti e  la seconda  che tale archiviazione fu effettuata senza informare il dott. Borsellino.

Come inoppugnabilmente documentato dagli atti processuali e da relazioni ufficiali della Procura della Repubblica di Palermo, nel luglio del 1992 non fu  affatto archiviata l’inchiesta mafia appalti, ma solo la posizione di alcuni indagati, taluni dei quali successivamente tratti in arresto nel maggio del 1993 a seguito della sopravvenuta conoscenza di dichiarazioni accusatorie, che nel luglio precedente erano state tenute celate ai magistrati di Palermo, e dell’acquisizione delle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia.  L’inchiesta proseguì per molti anni e portò a centinaia di arresti e di condanne di imprenditori, anche di livello nazionale, di politici e di  appartenenti a Cosa Nostra. 

Inoltre,  come peraltro è stato puntualmente  testimoniato da diversi colleghi presenti, durante la riunione della DDA di Palermo a cui partecipò anche il dott. Borsellino e a cui si fa cenno nella domanda  dell’intervistatrice, il dott. Lo Forte fece una dettagliata relazione sull’indagine in corso, dando naturalmente atto dello stato delle indagini e della richiesta di archiviazione parziale che nel frattempo era stata presentata. Dunque non è affatto vero che il dott. Borsellino non ne fu informato.

Le chiediamo pertanto di voler pubblicare la smentita di cui sopra.

Dott. Roberto Scarpinato

Dott. Guido Lo Forte

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:

Egregio Direttore, 

in data 20 maggio u.s. è stata pubblicata sul quotidiano da Lei diretto l’intervista a Mario Mori e Giuseppe De Donno, a firma Anna Germoni, da cui emerge una ricostruzione inesatta e fuorviante dei fatti, rispetto ai quali, essendomene occupato personalmente, ritengo necessario precisare quanto segue.

Nell’intervista, si fa riferimento a un’inchiesta condotta dalla Procura di Massa Carrara, relativa alla gestione di cave di marmo, in cui sarebbe risultata coinvolta la nota famiglia Buscemi di Palermo. Con riferimento a tale inchiesta, si sostiene che la stessa sarebbe stata inviata nell’agosto del 1991 alla Procura di Palermo e che, a Palermo, la stessa sarebbe stata tutta archiviata sul presupposto – definito nell’intervista come sbalorditivo – che gli inquirenti non conoscevano la statura criminale dei Buscemi, nonostante che il fratello di Nino Buscemi fosse alleato di Totò Riina.

Mi preme chiarire che il fascicolo aperto dalla Procura di Massa Carrara non fu affatto trasferito a Palermo, ove furono invece inviate soltanto fotocopie di pochissimi atti, indicando l’opportunità di eseguire indagini collegate, che vennero puntualmente svolte.

Al termine di tali indagini, concordemente alle conclusioni a cui era giunto il GICO della Guardia di Finanza di Palermo, nel giungo del 1992 venne richiesta l’archiviazione delle indagini collegate, mentre l’inchiesta toscana proseguiva autonomamente.

L’archiviazione fu richiesta non certo perché non si conoscesse lo spessore criminale dei fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, ma per la semplice ragione che non era emerso alcun elemento a loro carico nell’ambito di quella specifica ipotesi investigativa.

A tal proposito, mi preme però ricordare che all’epoca della richiesta di archiviazione del giungo 1992 Buscemi Salvatore era già stato condannato nel maxi processo uno, Buscemi Antonino era imputato nel maxi processo quater ed era già stato colpito da mandato di cattura nel 1988 (senza considerare che nell’autunno del 1992 avrebbe subito il sequestro preventivo di tutti i beni e nel maggio del 1993 sarebbe stato sottoposto a misura cautelare) e infine, Vito Buscemi era stato arrestato nel gennaio del 1992: tutto questo, è bene ricordarlo, su iniziativa della Procura di Palermo.

Le chiedo pertanto di informare i Suoi lettori di quanto sopra. 

Cordiali saluti

Dott. Gioacchino Natoli


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